L’impresa familiare non include il convivente, la questione alla Corte costituzionale

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L’impresa familiare è stata introdotta con la riforma del diritto di famiglia del 1975, allo scopo di tutelare il familiare che presti il proprio lavoro nella famiglia o all’interno, per l’appunto, di un’impresa di famiglia. Prima della riforma, situazioni di questo genere erano normalmente considerate rapporti di lavoro gratuito: si riteneva, infatti, che il lavoratore prestasse il proprio lavoro principalmente per questioni affettive; per cui, in assenza di un contratto di lavoro, al lavoratore non era riconosciuto alcun diritto alla retribuzione o ad altra tutela nei confronti del familiare imprenditore.

L’art. 230 bis del codice civile, introdotto dalla riforma del 1975, prevede, invece, che il familiare che collabori nell’impresa di famiglia abbia diritto al mantenimento e a partecipare agli utili dell’impresa, ai beni acquistati con gli utili stessi e agli incrementi dell’azienda.

È tuttavia necessario che:

  1. il lavoro sia prestato in modo continuativo, costante e regolare, mentre non è necessario che il soggetto lavori esclusivamente nell’impresa familiare;
  2. il lavoro non si traduca in semplice lavoro domestico, in quanto deve trattarsi di prestazioni comunque collegate all’attività d’impresa familiare.

Le tutele previste per l’impresa familiare trovano applicazione, inoltre, solo se tra le parti non intercorre un diverso rapporto: ad esempio, se i familiari hanno stipulato un contratto di lavoro subordinato, troverà applicazione esclusivamente quest’ultimo.

I familiari cui può applicarsi la disciplina dell’impresa familiare sono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado. Tra questi, dunque, non è incluso il convivente di fatto.

In realtà, la Legge n. 76/2016 (cd. Legge Cirinnà) ha esteso buona parte delle tutele disposte per l’impresa familiare sia ai conviventi di fatto che alle parti di un’unione civile. Tuttavia, le norme introdotte dalla Legge Cirinnà non si applicano alle questioni sorte prima del maggio 2016.

Da qui la causa che ha portato alla pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 1900 del 18/01/2024. Una donna, convivente di fatto di un imprenditore deceduto, chiedeva al Tribunale di Fermo la quota ereditaria a lei spettante come collaboratrice nell’impresa. La richiesta era stata respinta, in quanto la normativa sull’impresa familiare non è applicabile alle convivenze di fatto; inoltre, il convivente imprenditore era deceduto nel 2012, dunque prima dell’entrata in vigore della Legge Cirinnà.

La Cassazione, nel giudicare la questione, prende in considerazione anzitutto lo scopo per il quale era stata introdotta la normativa sull’impresa familiare nel 1975, ossia respingere la concezione del lavoro familiare gratuito e tutelare la persona che lavora in ambito familiare. A rilevare, dunque, sono i valori costituzionali della dignità, della libertà e dell’uguaglianza, e non tanto la famiglia fondata sul matrimonio.

Si tratta di valori da tutelare a prescindere dal soggetto che viene coinvolto, ossia a prescindere dal fatto che si sia in presenza di una famiglia legittima o di una convivenza.

Se l’esigenza, allora, è quella di garantire una certa protezione economica e giuridica ai lavoratori, porre su piani di tutela differenti il convivente di fatto e il soggetto coniugato potrebbe costituire una violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione: infatti, si genera una disparità di trattamento tra soggetti (convivente e coniugato) che svolgono la stessa attività all’interno dell’impresa familiare.

La normativa in questione, non prendendo in considerazione le convivenze, potrebbe violare altresì l’art. 2 della Costituzione, che garantisce i diritti involabili dell’uomo nelle formazioni sociali; norma attraverso la quale si dà dignità giuridica alla famiglia di fatto.

Da ultimo, la normativa sembra non rispettare le norme costituzionali che riconoscono il diritto al lavoro, la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e il diritto a una retribuzione degna.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rimesso la questione alla Corte Costituzionale, che dovrà valutare se l’art. 230 bis del codice civile viola la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella misura in cui non include nella categoria dei familiari i conviventi di fatto.

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