Allo scopo di facilitare la flessibilità in uscita e favorire il ricambio generazionale nel mercato del lavoro, il D.L. n. 4/2019 aveva introdotto in via sperimentale, per il triennio 2019-2021, la cosiddetta “pensione quota 100”, con la quale veniva riconosciuto ai lavoratori che avessero maturato entro il dicembre 2021 un’età anagrafica di 62 anni e una contribuzione minima di 38 anni il diritto alla pensione anticipata.
L’accesso alla pensione anticipata a “quota 100” è ancora possibile, a condizione che il soggetto richiedente abbia comunque maturato i requisiti di legge al 31 dicembre 2021.
Questa pensione non prevede alcuna penalizzazione nel suo calcolo ma attiva un divieto di cumulo con qualsiasi reddito di lavoro, fatta eccezione per 5.000 euro lordi annui di lavoro autonomo occasionale, fino alla data di maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia (attualmente 67 anni di età anagrafica).
Identica previsione, peraltro, è contenuta sia nella successiva modifica legislativa che ha introdotto “quota 102” (64 anni di età e 38 di contributi) per tutto il 2022, sia nel testo della Legge di bilancio 2023 approvato dal Consiglio dei Ministri che consentirà l’uscita dal lavoro con un minimo di 62 anni di età e 41 anni di contributi da raggiungere entro il 31 dicembre 2023 (cd. “quota 103”).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 234 del 24 novembre 2022, si è espressa proprio sulla legittimità costituzionale del divieto di cumulo previsto da “quota 100”.
La questione di legittimità sollevata dal Tribunale ordinario di Trento verteva in particolare sul possibile contrasto dell’art. 14, comma 3 del D.L. n. 4/2019 con il principio di eguaglianza formale di cui all’art. 3 Cost., per la parte in cui prevede la non cumulabilità della pensione anticipata maturata per aver raggiunto la cd. “quota 100” con i redditi da lavoro dipendente, qualunque sia il relativo ammontare, mentre consente il cumulo con i redditi di lavoro autonomo occasionale entro il limite di 5.000 euro lordi annui.
Dinanzi al giudice a quo pendeva infatti il procedimento instaurato da un soggetto nei confronti dell’INPS, il quale aveva maturato i requisiti per la “pensione quota 100” a far data dal 1° maggio 2019 e successivamente, aveva svolto prestazioni di lavoro di tipo intermittente senza obbligo di disponibilità, percependo redditi complessivi di circa 1500 euro lordi negli anni 2019 e 2020.
In applicazione del divieto di cumulo, l’INPS aveva quindi chiesto la ripetizione di quanto già versato fino ad agosto 2020 ed aveva interrotto la corresponsione dei ratei di pensione per il periodo successivo.
In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenziava l’evidente sproporzione tra redditi da lavoro conseguiti dal ricorrente e ratei di pensione anticipata, circa 35.000 euro che non gli sarebbero spettati per effetto del divieto di cumulo.
Aggiungeva poi che nel contesto normativo attuale la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sarebbe meno nitida, sottolineando come il ricorrente avesse svolto prestazioni nell’ambito di un rapporto di lavoro intermittente senza obbligo di disponibilità a rispondere alle chiamate, un rapporto di lavoro di dubbia assimilazione con il lavoro subordinato e al quale potrebbe estendersi la deroga prevista per lo svolgimento di lavoro autonomo occasionale.
Nel motivare la sua decisione, la Corte costituzionale ha premesso che la misura pensionistica “quota 100” costituisce un’eccezione al regime generale particolarmente favorevole per chi scelga di farvi ricorso e che, pertanto, non deve ritenersi irragionevole pretendere l’uscita dal mercato del lavoro dei beneficiari di tale trattamento, al fine di garantire la sostenibilità del sistema previdenziale e favorire il ricambio generazionale.
La Consulta esclude quindi che la deroga al divieto di cumulo prevista esclusivamente per i redditi da lavoro autonomo occasionale entro il limite dei 5000 euro lordi costituisca una violazione del principio di eguaglianza, stante l’assenza di omogeneità tra le prestazioni lavorative in esame.
Il lavoro intermittente deve essere ricondotto all’ampia categoria del lavoro flessibile e, anche nel caso in cui il lavoratore non si sia obbligato a rispondere alla chiamata del datore di lavoro risponde pur sempre alle esigenze organizzative di quest’ultimo.
La prestazione nel lavoro autonomo occasionale è invece sottratta a qualunque vincolo di prestazione, essendo riconducibile alla definizione di cui all’art. 2222 c.c.
La diversità strutturale tra le due tipologie di lavoro si riflette anche sul piano contributivo: mentre al lavoro intermittente, proprio perché subordinato, si accompagna l’obbligo di contribuzione, il reddito da lavoro autonomo occasionale è esente dall’obbligo contributivo fino all’importo di 5000 euro lordi annui.
La scelta del legislatore non risulta costituzionalmente illegittima neanche considerando la sproporzione che può in concreto determinarsi a seguito della sospensione del trattamento pensionistico per l’intero anno solare in cui siano percepiti redditi da lavoro di modesta entità (come nella fattispecie in esame). La sospensione del trattamento di quiescenza è, per l’appunto, funzionale a garantire un’effettiva uscita del pensionato che ha raggiunto la cd. “quota 100” dal mercato del lavoro.
La percezione da parte del pensionato di redditi da lavoro dipendente, qualunque ne sia l’entità, contraddice il presupposto richiesto per usufruire del trattamento pensionistico anticipato e mette a rischio l’obiettivo occupazionale.
Al contrario, il lavoro autonomo occasionale, data la sua natura residuale, non incide in modo diretto e significativo sulle dinamiche occupazionali, né su quelle previdenziali e non si pone quindi in contrasto con le finalità dichiarate dalla legge.
Per questi motivi la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale trentino.
Foto di Karolina Grabowska