La Consulta è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla costituzionalità delle norme contenute nel d.lgs. 23 del 2015, uno dei decreti di attuazione del cd. Jobs Act, che ha sostituito la disciplina dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori per tutti coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato a partire dalla data di entrata in vigore del decreto.
La nuova disciplina, sulla scia della riforma dell’art. 18 operata dalla Legge Fornero, ha circoscritto ulteriormente le ipotesi di applicazione della tutela reintegratoria, garantendo al lavoratore una tutela eminentemente indennitaria in caso di licenziamento illegittimo, il cui importo varia a seconda della gravità dell’illegittimità commessa dal datore nell’irrogare il licenziamento.
L’art. 9, comma 1 del decreto prevede che l’ammontare dell’indennità sia dimezzato per i lavoratori ingiustamente licenziati e impiegati in imprese con meno di 15 dipendenti (o meno di 5 in caso di imprese agricole), le cd. piccole imprese, e in ogni caso non possa superare il limite di 6 mensilità dell’ultima retribuzione percepita (limite così aumentato dal cd. Decreto Dignità; originariamente era previsto un limite di 4 mensilità).
Investita delle questioni di legittimità costituzionale di quest’ultima previsione, la Corte costituzionale, con sentenza del 22 luglio 2022 n. 183, ne ha dichiarato l’inammissibilità, pur facendo proprie gran parte delle obiezioni sollevate dal giudice rimettente.
Il giudice a quo, chiamato a decidere sul ricorso presentato da una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo dal titolare di una piccola impresa, ha ritenuto che non fosse stata dimostrata in giudizio la sussistenza del giustificato motivo oggettivo. L’accertata illegittimità del licenziamento avrebbe dovuto portare al riconoscimento in favore della lavoratrice di un’indennità compresa tra le 3 (metà del limite minimo previsto per tale ipotesi di licenziamento illegittimo) e le 6 mensilità.
Senonché, il giudice ha prospettato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1 del decreto legislativo per contrasto con i principi costituzionali in tema di eguaglianza e di tutela del lavoro.
La Consulta, nel condividere le argomentazioni del giudice a quo contenute nell’ordinanza di rimessione, ha evidenziato tutti i vizi che presenta tale previsione normativa.
In primo luogo, l’esiguità dell’intervallo entro cui deve essere individuata l’indennità impedisce al giudice di personalizzare adeguatamente l’importo alla specificità della singola vicenda e, quindi, di garantire un congruo ristoro al lavoratore e dissuadere il datore di lavoro da reiterare l’illecito.
In secondo luogo, il criterio del numero degli occupati non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro: nel quadro economico attuale, dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, un numero contenuto di occupati può essere accompagnato da cospicui investimenti in capitali e da un consistente volume di affari. In questo senso, il limite massimo fissato in sei mensilità potrebbe non avere alcuna efficacia deterrente per il datore.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte costituzionale riconosce l’effettiva sussistenza di un grave vulnus nel regime di tutela dei lavoratori alle dipendenze dei ‘piccoli’ datori di lavoro, ma ritiene di non poter porvi rimedio, perché un suo intervento sconfinerebbe nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
Nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni proposte, tuttavia, la Corte esorta il legislatore a individuare criteri più appropriati per la determinazione delle indennità, che tengano conto delle differenze delle realtà organizzative e dei contesti economici in cui esse operano, avvertendolo che, qualora non dovesse provvedere nel breve termine, sarà costretta a supplire all’inerzia legislativa.
Foto di Tim Douglas