Licenziamento durante la gravidanza: quando la giusta causa prevale sulla tutela

La tutela della lavoratrice in gravidanza è un principio cardine del nostro ordinamento, sancito dall’art. 54 del D.Lgs. n. 151/2001. Tuttavia, questa garanzia può venire meno in presenza di condotte particolarmente gravi da parte del dipendente. È questo il caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 19367 del 14 luglio 2025, che ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice incinta, colpevole di avere falsificato i fax contenenti certificazioni mediche.

La lavoratrice era stata licenziata nel novembre 2010 per giusta causa. A fondamento del provvedimento disciplinare, l’azienda aveva contestato la trasmissione, da parte della dipendente, di certificati medici mediante fax retrodatati, con lo scopo di giustificare assenze lavorative non comunicate nei termini.

La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento sostenendo, tra l’altro, la nullità dello stesso in quanto irrogato durante lo stato di gravidanza. La Corte d’Appello di Ancona aveva accolto il ricorso, ordinando la reintegrazione e il pagamento delle retribuzioni arretrate.

La vicenda ha avuto un lungo iter giudiziario, conclusosi con il rigetto definitivo del ricorso da parte della Corte di Cassazione, che ha confermato la validità del licenziamento per giusta causa anche in presenza della gravidanza, proprio per la gravità della condotta.

Uno dei punti centrali della decisione riguarda l’utilizzabilità, nel giudizio civile, delle risultanze del processo penale. La Corte, nel giudizio di rinvio, ha fatto proprie le conclusioni della sentenza della Corte d’Appello penale di Ancona, che aveva accertato la falsificazione dei fax. A tale riguardo, la Cassazione ha chiarito che «Si tratta di una delle cc.dd. prove atipiche ammissibili nel processo civile per l’inesistenza di un principio di tassatività dei mezzi di prova».

È stato altresì ribadito che il giudice civile può legittimamente utilizzare e valorizzare le risultanze del processo penale, anche se prive di efficacia di giudicato, purché le valuti autonomamente.

Il punto decisivo della controversia è stata la valutazione della condotta della lavoratrice, ritenuta non solo inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali (in particolare, l’art. 58 del CCNL), ma anche gravemente dolosa per la contraffazione dei fax: «La A.A. ha dolosamente tentato di occultare la violazione dell’art. 58 CCNL, ponendo in essere una contraffazione dei fax con slealtà nei confronti della datrice di lavoro».

Tale comportamento, secondo la Corte, costituisce un quid pluris rispetto alla mera inosservanza delle regole sui termini di comunicazione delle assenze. Non si tratta, infatti, di un’ordinaria infrazione disciplinare, ma di un inganno deliberato, capace di minare irrimediabilmente il rapporto fiduciario.

La Cassazione ha riaffermato il principio per cui il divieto di licenziamento in gravidanza non opera in presenza di colpa grave, come previsto dall’art. 54, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. 151/2001: «È ravvisabile la colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro».

In particolare, i giudici della Suprema Corte hanno valorizzato l’elemento doloso e fraudolento della condotta, ritenuto incompatibile con il regime di tutela rafforzata riconosciuto alla maternità.

La decisione ha infine precisato che non è sufficiente l’allegazione generica del proprio stato di gravidanza o di sofferenza psicologica, ma è necessario che ciò non sia accompagnato da violazioni disciplinari gravi e consapevoli.

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