NO ALLA RETRIBUZIONE DEL C.D. “TEMPO TUTA” SE NON REGOLATO DAL DATORE DI LAVORO

Il tempo impiegato per indossare e dismettere gli indumenti da lavoro è retribuito solo se le relative modalità sono regolate da specifiche indicazioni aziendali

In questo senso si è pronunciata la Corte di Cassazione con ordinanza n. 15763/2021.

La pronuncia si fonda sul ricorso di un gruppo di lavoratori diretto ad ottenere il riconoscimento della retribuzione per il tempo di vestizione degli abiti di lavoro e degli altri dispositivi di protezione individuale (c.d. “tempo tuta”). A tal riguardo, la Corte di Appello, in difformità con quanto statuito dal Giudice di prime cure, aveva negato tale diritto argomentando che il datore di lavoro non fosse tenuto al pagamento per non aver mai imposto e indicato specificatamente le modalità e le tempistiche a cui i dipendenti avrebbero dovuto attenersi nella vestizione e svestizione.

La Suprema Corte, nel confermare la decisione emessa dalla Corte d’Appello, ha rilevato che la Corte territoriale aveva adeguatamente svolto la propria attività istruttoria valutando gli elementi probatori circa la sussistenza o meno di disposizioni impartite dal datore di lavoro in merito alle modalità ed ai tempi di vestizione e svestizione dei dipendenti.

Ha osservato in particolare che, come da consolidato orientamento giurisprudenziale, il c.d. “tempo tuta” risulta essere oggetto di retribuzione, rientrando nel normale orario di lavoro, solo nell’ipotesi in cui siano ravvisabili elementi di eterodirezione datoriale. In caso contrario, l’attività consistente nell’indossare e nel dismettere gli indumenti utilizzati nel luogo di lavoro deve essere considerata come azione riconducibile alla diligenza che il lavoratore è tenuto a rispettare nello svolgimento della propria obbligazione principale, non determinando per tale ragione una autonoma voce retributiva.

Nel caso in specie, risultava provato che il datore di lavoro non avesse provveduto all’emanazione di alcuna specifica indicazione relativa alla vestizione e svestizione per lo svolgimento dell’attività lavorativa, avendo rimesso alla scelta dei singoli dipendenti l’utilizzo degli spogliatoi e degli spazi messi a disposizione dall’azienda.

La stessa questione è stata affrontata dalla Suprema Corte nel giudizio definito con ordinanza n. 8626/2020, in cui è tuttavia pervenuta ad una decisione di segno opposto.

Le ragioni sono rinvenibili nella peculiarità del caso concreto, riguardante i dipendenti una ASL (Azienda Sanitaria Locale).

In tale ipotesi, la Corte di Cassazione ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale che attribuisce particolare rilevanza anche alla funzione dell’abbigliamento stesso, dal quale è possibile implicitamente dedurre l’esistenza di un’eterodirezione.

Secondo quanto ritenuto dalla Corte di legittimità, tale circostanza potrebbe rilevarsi nel caso in cui gli indumenti indossati sul luogo di lavoro siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento. Rilievo determinante è stato comunque dato alla circostanza che, nel caso concreto, le modalità di vestizione e svestizione dei dipendenti siano determinate non tanto da regole imposte dal datore di lavoro, quanto da un obbligo derivante da superiori esigenze di sicurezza ed igiene.

Per tale motivo, la Suprema Corte ha ritenuto che l’attività consistente nell’indossare e dismettere gli indumenti da lavoro da parte di operatori di una ASL rientri nell’orario lavorativo e debba quindi essere retribuita autonomamente.

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