Risarcimento per il dipendente precario e vittima di discriminazione

Con l’ordinanza n. 3488 dell’11 febbraio 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di discriminazione lavorativa, affermando che un dipendente precario, escluso da nuove assunzioni a causa delle proprie convinzioni personali, ha diritto al risarcimento del danno.

Il caso trae origine dal ricorso di un lavoratore che, dopo essere stato ripetutamente assunto con contratti a termine dalla Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli, si era visto negare il diritto di precedenza nell’assunzione per la stagione successiva. La decisione del datore di lavoro era motivata dal rifiuto del dipendente di sottoscrivere un verbale di conciliazione richiesto dalla Fondazione come condizione per l’assunzione. Il lavoratore, ritenendo questa imposizione una forma di discriminazione, aveva adito il Tribunale di Napoli per far valere i propri diritti.

La Corte d’Appello di Napoli, accogliendo parzialmente il ricorso del lavoratore, aveva accertato che l’esclusione dall’assunzione derivava unicamente dal rifiuto di sottoscrivere il verbale di conciliazione, configurando così un trattamento discriminatorio basato sulle convinzioni personali del dipendente.

La Corte aveva sottolineato che il concetto di “convinzioni personali” non si limita a quelle religiose o politiche, ma comprende qualsiasi forma di autodeterminazione che rientri nell’ambito della libertà individuale. Tuttavia, i giudici di merito avevano limitato il risarcimento al solo danno patrimoniale, corrispondente alle retribuzioni perse nel periodo compreso tra il 23 febbraio e il 14 marzo 2015, escludendo qualsiasi riconoscimento per il danno morale.

Il lavoratore ha quindi impugnato la sentenza in Cassazione, sostenendo che il danno da discriminazione deve includere non solo il pregiudizio economico subito, ma anche quello non patrimoniale, in linea con la normativa europea e i principi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che il risarcimento per discriminazione deve avere una funzione non solo riparatoria, ma anche dissuasiva e sanzionatoria. Richiamando la direttiva 2000/78/CE e il D.Lgs. n. 216/2003, la Corte ha precisato che:

“Il risarcimento del danno non patrimoniale in caso di discriminazione non è subordinato alla prova di uno specifico pregiudizio, poiché l’atto discriminatorio è, di per sé, lesivo della dignità del lavoratore e intrinsecamente umiliante”.

Secondo la Suprema Corte, l’esclusione del danno morale dalla liquidazione del risarcimento contrasta con i principi di effettività e dissuasività richiesti dal diritto dell’Unione Europea.

In altre parole, il danno da discriminazione non può essere trattato alla stregua di un mero danno economico, ma deve essere valutato anche sotto il profilo dell’impatto sulla dignità e sulla persona del lavoratore. Il giudice, pertanto, è tenuto a riconoscere tale danno in via equitativa, tenendo conto della gravità della discriminazione subita.

Con questa decisione, la Corte ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Napoli nella parte in cui aveva negato il risarcimento del danno non patrimoniale, rinviando il caso a un nuovo esame per una corretta quantificazione del danno subito dal lavoratore.

La pronuncia conferma, dunque, l’importanza di un’applicazione rigorosa delle norme antidiscriminatorie e il diritto del lavoratore a un risarcimento adeguato che non si limiti al solo aspetto economico, ma consideri anche le conseguenze morali e personali della condotta illecita subita.

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