Impugnazione del licenziamento, verso una possibile incostituzionalità?

La disciplina dell’impugnazione del licenziamento è contenuta nell’articolo 6 della Legge n. 604 del 1966, il quale stabilisce termini precisi per contestare il licenziamento. In particolare, il lavoratore ha 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta di licenziamento per impugnare l’atto. Questa contestazione può avvenire tramite qualsiasi atto scritto, come un’e-mail, una lettera raccomandata o una PEC. Dopo l’impugnazione, la legge prevede che il lavoratore abbia ulteriori 180 giorni per depositare un ricorso giudiziale o richiedere un tentativo di conciliazione o arbitrato, pena la decadenza del diritto del lavoratore a contestare il licenziamento in giudizio.

La lettera di licenziamento, peraltro, si reputa conosciuta dal lavoratore nel momento in cui giunge al suo indirizzo; per cui, il termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento decorre dal recapito della lettera all’indirizzo del destinatario, a prescindere dal fatto che il lavoratore l’abbia letta o meno: ciò che conta, infatti, non è l’effettiva conoscenza della comunicazione ma la sua conoscibilità, di modo che sia in ogni caso tutelata la certezza dei rapporti giuridici. Di conseguenza, anche qualora il lavoratore fosse impossibilitato a leggere la lettera a causa di uno stato di malattia, il termine per impugnare il licenziamento decorrerebbe comunque dalla consegna al suo indirizzo.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con ordinanza n. 23874 del 05/09/2024, si è recentemente pronunciata in un caso di questo genere.

Il caso in esame ha coinvolto una lavoratrice licenziata dalla propria azienda per assenze ingiustificate. La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento dopo i 60 giorni previsti dalla legge, sostenendo di aver attraversato un periodo di grave crisi depressiva; tuttavia, la lavoratrice riteneva che l’impugnazione dovesse essere comunque considerata valida, in quanto, altrimenti, sarebbe stato danneggiato il proprio diritto alla salute, alla difesa e al lavoro.

La Corte di Cassazione ha ricordato che la previsione di un termine breve per impugnare il licenziamento è volta a tutelare l’interesse del datore di lavoro alla continuità nella gestione dell’impresa; infatti, il datore di lavoro ha interesse a sapere in breve tempo se il licenziamento verrà impugnato o meno.

Tuttavia, il diritto del datore di lavoro deve essere protetto senza sacrificare eccessivamente la posizione del lavoratore. In particolare, la Cassazione afferma che, in caso di incapacità di intendere e di volere del lavoratore derivante da una patologia, facendo decorrere il termine di impugnazione comunque dalla consegna della lettera all’indirizzo del dipendente si tutelerebbe solo la posizione dell’imprenditore. Di conseguenza, a detta della Cassazione, la norma sull’impugnazione del licenziamento sarebbe in primo luogo irragionevole, in quanto non opera alcun bilanciamento tra i diritti dell’imprenditore e del lavoratore; in secondo luogo, si porrebbe in contrasto con il diritto alla salute, garantito dalla Costituzione.

Infine, la Cassazione precisa che, qualora il termine per l’impugnazione del licenziamento decorresse dal momento in cui il lavoratore ha avuto effettiva conoscenza del licenziamento, la certezza dei rapporti giuridici non verrebbe danneggiata, in quanto il lavoratore dovrebbe fornire prova in giudizio sia del proprio stato di malattia che della data in cui esso è cessato.

La Cassazione rimette dunque la questione alla Corte costituzionale, la quale dovrà pronunciarsi sul punto. Un’eventuale sentenza di incostituzionalità della norma sull’impugnazione del licenziamento avrebbe implicazioni significative per gli imprenditori, i quali dovrebbero tener conto del possibile stato di incapacità del lavoratore nel ricevere la comunicazione di licenziamento e, di conseguenza, vedrebbero cadere un importante elemento di certezza e prevedibilità nella gestione del rapporto di lavoro.