La recente ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro (n. 31330 del 6 dicembre 2024), rappresenta un fondamentale chiarimento sul tema della fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla Legge 104/1992, confermando il ruolo primario della tutela della salute psico-fisica del lavoratore all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.
Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa di una dipendente affetta da grave patologia psichica, avvenuto a seguito dell’utilizzo di permessi retribuiti ex art. 33 della Legge 104/1992. La società datrice di lavoro sosteneva che i permessi fossero stati impiegati per attività estranee alle finalità terapeutiche, come passeggiate e gite fuori porta, ritenute non riconducibili alla cura della salute. La lavoratrice ha contestato la legittimità del licenziamento, ottenendo sia in primo grado sia in appello il riconoscimento dell’illegittimità della misura e la conseguente reintegra nel posto di lavoro, oltre al risarcimento dei danni.
La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso della società, che articolava diverse censure, tra cui la violazione delle norme sui permessi ex Legge 104/1992, il mancato riconoscimento dello “scarso rendimento” e l’omessa considerazione dell’“aliunde perceptum” nel calcolo del risarcimento.
La Cassazione ha ribadito che i permessi disciplinati dall’art. 33, comma 6, della Legge 104/1992, non si limitano a garantire al lavoratore la possibilità di sottoporsi a cure mediche, ma comprendono anche attività volte a promuovere l’integrazione sociale e il recupero psico-fisico.
In particolare, la Suprema Corte ha posto l’attenzione sul principio della concretezza, specificando che l’utilizzo dei permessi deve essere valutato in relazione alla specifica patologia del lavoratore e alle esigenze terapeutiche che questa comporta.
È stato altresì messo in rilievo che per patologie psichiche, attività come passeggiate o gite possono costituire parte integrante del percorso di recupero, purché siano conformi alle prescrizioni mediche.
Nel caso di specie, la società non ha fornito prove concrete di un uso improprio dei permessi da parte della lavoratrice.
Un ulteriore motivo di ricorso riguardava la presunta incompatibilità tra le assenze della lavoratrice e le esigenze aziendali, che avrebbero causato disservizi e costretto i colleghi a effettuare straordinari. La Cassazione ha rigettato tale argomentazione, chiarendo che il diritto alla salute prevale su esigenze organizzative, in quanto rappresenta un principio costituzionalmente garantito che non può essere subordinato a difficoltà operative dell’azienda.
Inoltre, nel caso di specie la società non ha dimostrato un nesso causale diretto tra le assenze della lavoratrice e un concreto pregiudizio aziendale.
I giudici della Suprema Corte hanno ribadito che, prima del superamento del periodo di comporto, il datore di lavoro non può licenziare un dipendente per scarso rendimento legato a condizioni di salute.
Sul tema del risarcimento, la Corte ha confermato che è onere del datore di lavoro dimostrare in maniera specifica eventuali redditi percepiti dal lavoratore durante il periodo di mancata occupazione. Nel caso di specie, la doglianza della società è stata considerata generica e priva di fondamento.
La decisione della Cassazione consolida un orientamento giurisprudenziale che pone al centro del rapporto di lavoro la tutela della persona, garantendo al lavoratore il diritto a fruire dei permessi per finalità di recupero psico-fisico, senza il timore di essere arbitrariamente sanzionato o licenziato, nonché una protezione contro abusi e discriminazioni da parte del datore di lavoro in relazione all’esercizio di diritti fondamentali.