Con la sentenza del 29 maggio 2025, il Tribunale di Napoli ha riaffermato che il superamento del periodo di comporto può giustificare il licenziamento, anche in presenza di disabilità, se il lavoratore non dimostra che le assenze siano direttamente riconducibili alla propria condizione invalidante.
Il caso riguardava un dipendente con qualifica di operaio che aveva contestato il recesso intimato per superamento del periodo massimo di conservazione del posto previsto dal contratto collettivo.
Secondo quanto accertato dal giudice, il lavoratore era rimasto assente per malattia per un periodo complessivo di 364 giorni, a fronte dei 180 giorni fissati dal contratto collettivo delle Agenzie per il lavoro come limite massimo per la conservazione del posto. L’azienda, in questo caso, aveva tollerato un’assenza doppia rispetto al limite formale, il che è stato letto dal Tribunale come indicativo di un accomodamento ragionevole in favore del dipendente, coerente con quanto previsto dalla legge n. 67/2006 e dalla normativa eurounitaria sulla tutela delle persone con disabilità.
Ciò che ha segnato il rigetto del ricorso del lavoratore è stato soprattutto l’assenza di un nesso concreto tra la condizione invalidante – nel caso di specie una patologia oncologica riconosciuta – e i certificati medici giustificativi delle assenze.
La sentenza sottolinea infatti che: «il ricorrente giustificava le assenze con certificazioni neutre, prive di ogni riferimento alla sua patologia oncologica cronica», e che «nessuna delle certificazioni mediche indica che le assenze siano da imputare a una specifica condizione invalidante». Da ciò consegue l’impossibilità, per il lavoratore, di invocare la discriminazione indiretta o l’invalidità del licenziamento per violazione dell’obbligo di ragionevole accomodamento.
Il giudice ha altresì escluso che potesse ravvisarsi un obbligo in capo al datore di lavoro di avvisare il dipendente dell’approssimarsi del termine del comporto, trattandosi di un evento oggettivamente conoscibile e non previsto espressamente da norme o dal contratto collettivo.
Non meno importante, il Tribunale ha affrontato anche la domanda del lavoratore relativa a presunte differenze retributive dovute a un preteso inquadramento superiore. Tale pretesa è stata respinta per carenza di allegazione e prova, evidenziando come il ricorrente non avesse chiaramente indicato le mansioni svolte né il livello contrattuale a cui ambiva.
Tale decisione si inserisce in un filone giurisprudenziale sempre più attento al bilanciamento tra la tutela della persona disabile e la legittima organizzazione imprenditoriale, ribadendo che il principio del ragionevole accomodamento non può spingersi fino a compromettere il corretto esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro.
Inoltre, rafforza la tesi per cui l’onere della prova – in tema sia di discriminazione indiretta sia di esclusione dal computo del comporto – resta a carico del lavoratore, che deve dimostrare il collegamento effettivo tra la propria condizione soggettiva e le assenze contestate.
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