Condanna per reato commesso prima dell’assunzione: è legittimo il licenziamento?

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Illegittimo il licenziamento del dipendente a seguito di condanna penale se i reati, anche gravi, sono stati commessi oltre venti anni prima rispetto alla contestazione disciplinare.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione, in seguito all’opposizione di una società all’annullamento del licenziamento dalla stessa comminato ad un proprio dipendente, con mansioni di addetto alla raccolta dei rifiuti, con conseguente condanna alla reintegrazione del medesimo nel posto di lavoro ed al pagamento dell’indennità risarcitoria dovuta.

Nel caso in esame, il licenziamento era stato irrogato dopo il riscontro di una condanna penale a carico del prestatore, emessa molti anni prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro.

Secondo la Corte territoriale, la predetta condanna non aveva inciso, di fatto, sul rapporto di lavoro in atto.

Difatti, anche se la condanna era teoricamente infamante – si trattava di una condanna per il reato di associazione mafiosa – la stessa non aveva messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti.

In tale contesto, i giudici di merito avevano richiamato il diritto del pregiudicato a reinserirsi nella società, espletando un lavoro onesto: permettere il licenziamento di qualcuno solo perché pregiudicato, senza valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti, significava impedire il reinserimento del condannato, per come invece propugnato dall’ordinamento italiano.

Tutte queste conclusioni sono state confermate dalla Suprema Corte, che ha ritenuto non meritevoli di accoglimento i motivi di impugnazione sollevati dalla società datrice di lavoro.

Pertanto, con ordinanza n. 4458 del 20 febbraio 2024, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha richiamato quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento a condotte extra lavorative, integranti illecito penale, tenute prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo.

Tuttavia per i giudici della Corte, per aversi una responsabilità disciplinare occorre che si tratti di una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso.

Anche laddove i contratti collettivi inseriscano nel novero degli illeciti disciplinari, puramente e semplicemente, l’avere il lavoratore riportato condanna penale per determinati fatti-reato non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, tali previsioni possono definirsi come disciplinari solo se la condotta criminosa e la condanna abbiano avuto luogo durante il rapporto medesimo.

Ciò non vuol dire che condotte costituenti reato non possano integrare giusta causa di licenziamento pur essendo state realizzate a rapporto lavorativo non ancora in corso e non in connessione con esso.

Si legge nella decisione che “è noto che per giusta causa non si intenda unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari anche verificata anteriormente ad esso, si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto”.

Il licenziamento, dunque, risulterebbe illegittimo laddove risulti che la condanna penale non abbia inciso sul rapporto di lavoro medesimo.

Con specifico riguardo all’ipotesi che, come nella specie, la condotta criminosa sia stata realizzata prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, spetta al giudice valutare se la condotta extra lavorativa sia di per sé incompatibile con l’essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro.

Nel caso in esame, i fatti addebitati non solo risultavano assai risalenti nel tempo, ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna era precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro.

Inoltre, erano state considerate anche le mansioni espletate dal lavoratore che, in qualità di addetto alla raccolta dei rifiuti, non ricopriva alcun ruolo gerarchico né decisionale nell’ambito della società datrice.

Pertanto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società.

Foto di Sora Shimazaki da Pexels