Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è caratterizzato da stabilità

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 26246 del 06/09/2022, ha evidenziato le ricadute della normativa vigente in materia di tutela contro il licenziamento illegittimo sul tema della prescrizione dei crediti da lavoro.

La L. 92/2012 e soprattutto il D.Lgs. 23/2015, a detta dello stesso legislatore, sono normative introdotte con il fine di attribuire al datore di lavoro un sufficiente grado di certezza in merito alle conseguenze di un eventuale licenziamento illegittimo, in modo da incrementare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di chi non abbia un’occupazione (cfr. art. 1, comma VII, L. 183/2014).

Se, dunque, a oggi, per il datore di lavoro è più facile prevedere le conseguenze di un licenziamento, specularmente la posizione del lavoratore risulta essere più precaria e, nel complesso, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato si presenta instabile. La Suprema Corte ne prende atto con la pronuncia in commento.

Il caso di specie vedeva due lavoratrici soccombere dinnanzi alla Corte d’Appello di Brescia, la quale aveva rigettato la loro pretesa di riconoscimento di differenze retributive poiché, a detta del giudice di secondo grado, questi diritti erano caduti ormai in prescrizione.

La prescrizione dei crediti da lavoro è disciplinata all’art. 2948, comma IV, del codice civile: “Si prescrivono in cinque anni (…) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. Al contempo, all’art. 2935 del codice civile si afferma: “La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.

Tuttavia, come noto, con riferimento ai crediti da lavoro, si pongono questioni di tutela del lavoratore, in quanto parte debole del rapporto. Per questo la Corte costituzionale, insieme alla Corte di Cassazione, hanno delineato un peculiare regime di decorrenza del termine prescrizionale in relazione ai rapporti di lavoro: il termine quinquennale non decorre durante il rapporto di lavoro se quest’ultimo non è assistito da sufficienti garanzie di stabilità.  Infatti – affermava la Corte costituzionale nella celebre sentenza n. 63 del 1966 – l’art. 36 della Costituzione preclude al lavoratore la possibilità di rinunziare ai suoi diritti, anche implicitamente mediante il mancato esercizio degli stessi; ma, in assenza di garanzie di stabilità del rapporto, il lavoratore si trova in una situazione psicologica che lo spinge a non avanzare pretese durante il corso del rapporto di lavoro, per timore di perdere il posto; in questo modo, il lavoratore versa esattamente nella condizione non desiderata dal costituente.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è posta poi in tale solco precisando che è da intendersi come stabile un rapporto di lavoro disciplinato in modo che la sua risoluzione debba essere riconducibile a circostanze obiettive e predeterminate e che affidi al giudice il sindacato sulla sussistenza di tali circostanze e la possibilità, eventualmente, di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo; caratteristiche che venivano riscontrate, al tempo, nel pubblico impiego nonché nell’ambito di operatività dell’art. 18 L. 300/1970 (cfr. Cass., Sezioni Unite, 1268/1976).

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, riconosce che il quadro normativo si presenta, ad oggi, profondamente mutato: l’art. 18 L. 300/1970, secondo la formulazione precedente alla riforma Fornero, applicava la tutela reintegratoria, accompagnata da quella risarcitoria, a tutte le fattispecie di licenziamento illegittimo; la riforma Fornero ha invece avviato un processo di gradazione delle tutele in caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo che relega l’annullamento del licenziamento, e dunque la reintegra del lavoratore sul posto di lavoro a rimedio subalterno (applicato solo nei casi di insussistenza del fatto contestato o qualora il fatto rientri tra  le  condotte  punibili  con  una sanzione conservativa  sulla  base  delle  previsioni  dei  contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili). La tutela risarcitoria è a oggi concepita come rimedio principale.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Brescia aveva motivato rammentando che la disciplina attuale applica comunque la tutela reintegratoria in caso di licenziamento ritorsivo, ossia per motivo illecito; ragion per cui, a detta del giudice di secondo grado, le lavoratrici non avrebbero dovuto avere timore di perdere il posto qualora avessero preteso, durante il rapporto di lavoro, le differenze retributive che gli sarebbero spettate.

La Suprema Corte corregge la Corte d’Appello sul punto: il fatto che un licenziamento venga qualificato come ritorsivo, e dunque come meritevole di applicazione della tutela reintegratoria, consegue alla pronuncia del giudice investito della causa.

Ciò è incompatibile con le esigenze di certezza del diritto sottese all’istituto della prescrizione: questa, definita dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento come istituto di “fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese”, conferisce certezza ai diritti e all’effettività della loro tutela, sia con riferimento ai rapporti tra consociati che in merito all’attrattività dello Stato nell’ambito delle relazioni commerciali internazionali. Sul piano dei rapporti di lavoro subordinato, è dunque necessario che il giorno di decorrenza del termine prescrizionale sia conoscibile sia da parte dell’imprenditore, il quale deve poter organizzare l’attività e i processi con cognizione di tutte le incombenze e i rischi, che da parte del lavoratore, il quale deve sapere fino a quando potrà esercitare il proprio diritto.

In definitiva, da una parte si afferma che, perché la prescrizione di un diritto del lavoratore decorra, è necessario che il rapporto di lavoro sia caratterizzato da stabilità; dall’altra parte, è indispensabile che il giorno di decorrenza del termine prescrizionale sia certo e conoscibile già durante il corso del rapporto di lavoro subordinato.

Tale binomio si traduce nella necessità, sia per il datore di lavoro che per il lavoratore, di sapere con certezza, prima della pronuncia giudiziale (che intrinsecamente si caratterizza per incertezza), quali sarebbero le conseguenze di un eventuale licenziamento, e dunque se il rapporto di lavoro che li impegna possa definirsi stabile. A detta della Corte di Cassazione, ciò non può realizzarsi poiché, nei rapporti a tempo indeterminato, il rimedio principale in caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo è rappresentato dalla tutela risarcitoria; ragion per cui il termine di prescrizione quinquennale riferito ai diritti che non risultino prescritti al momento dell’entrata in vigore della L. 92/2012 decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Foto di Anna Shvets