Il danno non patrimoniale derivante dalla perdita di un familiare, cagionata da fatto illecito altrui, è risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Si tratta di un danno iure proprio: il pregiudizio viene sopportato direttamente dai parenti della vittima, nella misura in cui essi percepiscono il vuoto affettivo e la rottura del legame familiare; in tal senso, il danno da perdita parentale si differenzia rispetto al danno cd. tanatologico, ossia il danno connaturato alle sofferenze patite dalla vittima prima del decesso; tale danno viene qualificato come iure hereditaris, poiché la titolarità del diritto al risarcimento viene, in un certo senso, trasferita agli eredi del deceduto.
Naturalmente, il danno da perdita di un congiunto può avere proporzioni abnormi e in un certo senso insondabili, data la profondità del legame affettivo che viene infranto; la Corte di Cassazione ha in proposito affermato (Cass. civ. sez. III n. 28989 dell’11/11/2019) che il danno in questione è risarcibile sotto il profilo morale – sofferenza psichica derivante dall’impossibilità di proseguire il rapporto con il defunto – e sotto il profilo relazionale – sconvolgimento di vita.
La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi, in particolare, sulla questione della prova del danno e sulla sua quantificazione, con sentenza n. 25541 del 30/08/2022, ribadendo i principi elaborati dalla giurisprudenza precedente.
Il ricorrente era un medico condannato in secondo grado al pagamento di un’ingente somma, a titolo di risarcimento dei danni da lesione del rapporto parentale; il ricorrente, difatti, aveva eseguito una diagnosi errata e predisposto un piano terapeutico inadatto, cagionando il decesso del paziente.
In particolare, il quarto motivo di ricorso in cassazione si concentrava sulla questione dell’onere della prova, in quanto, a detta del ricorrente il danno da perdita parentale non poteva essere qualificato come danno in re ipsa: mentre tale ultima tipologia di danno non necessita di alcuna allegazione, ma viene considerato sussistente semplicemente in ragione dell’avverarsi di una determinata condizione, nel caso del danno da lesione del legame parentale sarebbe necessario, per il danneggiato, dimostrare in giudizio la sua esistenza, il che non era accaduto durante il secondo grado di giudizio.
La Corte di Cassazione conferma che il danno da lesione del rapporto parentale non è in re ipsa; cionondimeno, si tratta di un danno presuntivo: ciò significa che la prova dei fatti costitutivi della pretesa può essere fornita mediante presunzioni semplici e massime di comune esperienza. Infatti, l’orientamento unanime della Cassazione afferma che, secondo il principio dell’id quod plerumque accidit (‘ciò che accade più spesso’), è l’esistenza stessa del rapporto di parentela a far presumere la realtà della sofferenza in capo ai familiari, in quanto si tratta di una conseguenza intrinseca alla natura umana.
Aggiunge la Suprema Corte che, non trattandosi di presunzione assoluta, è in ogni caso possibile, per il danneggiante, provare il fatto contrario. La prova da parte del danneggiato è invece necessaria nel momento in cui egli intenda ottenere una somma più alta rispetto a quella liquidata in via equitativa dal giudice: la Suprema Corte afferma che il danneggiato, qualora intenda soddisfarsi mediante le sole somme quantificate sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale, avrebbe semplicemente l’onere di fare istanza di liquidazione del danno in tal senso; qualora, invece, intenda ottenere una somma diversa, avrebbe l’onere di provare gli elementi peculiari della sua situazione, in modo da conseguire una personalizzazione del danno.
Foto di Octavio J. García N.