Legittimo il licenziamento per molestie sessuali

Con l’espressione “molestie sessuali” si fa riferimento a comportamenti molesti e lesivi rivolti alla sfera sessuale. Da un punto di vista normativo le molestie sessuali sul posto di lavoro sono considerate un atto discriminatorio, tanto è vero che l’Unione Europea si è occupata di questo tema in una rilevante e recente direttiva, la 2006/54/CE, nella quale si afferma che: “Le molestie e le molestie sessuali sono contrarie al principio della parità di trattamento fra uomini e donne e costituiscono forme di discriminazione fondate sul sesso ai fini della presente direttiva. Queste forme di discriminazione dovrebbero pertanto essere vietate e soggette a sanzioni efficaci proporzionate e dissuasive”.

Attualmente, in Italia il reato di molestie sessuali è sanzionato ai sensi dell’articolo 660 del codice penale, rubricato “molestie o disturbo alle persone” che dispone:
Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito, a querela della persona offesa, con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda sino a euro 516.
Si procede tuttavia d’ufficio quando il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.
La fattispecie si ritiene configurabile in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento, invasivi e insistiti.

La sentenza n. 23295 del 31.07.2023 della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che le allusioni a sfondo sessuale giustificano il licenziamento disciplinare del lavoratore anche se avvengono in un clima goliardico.

Nel caso oggetto di trattazione, un dipendente, denunciato sia dalla collega che dalla società, ha impugnato giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver avanzato allusioni fisiche e verbali a sfondo sessuale nei confronti di una giovane collega neoassunta, con contratto a termine e assegnata a mansioni di barista.

La Cassazione – confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello, la quale aveva rigettato la predetta domanda, ritenendo irrilevante sia che fosse assente la volontà offensiva sia che il clima dei rapporti tra i colleghi fosse scherzoso e goliardico – ha sostenuto che “devono essere considerate molestie tutti quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

Secondo la Suprema Corte, dunque, nelle molestie rientrano tutte quelle condotte che abbiano carattere comunque indesiderato, pur senza che ad esse conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale, anche nell’ipotesi di assenza di volontà di recare una offesa.

All’interno del ricorso, il dipendente aveva altresì sostenuto una presunta inattendibilità della collega perché il Giudice per le Indagini preliminari aveva in precedenza archiviato una sua denuncia di violenze sessuali e stalking.
I giudici della Cassazione, tuttavia, hanno rilevato che il reato di stalking era estraneo ai fatti per i quali lo stesso era stato licenziato, e l’archiviazione della violenza era stata causata da una querela tardiva e non da questioni concernenti il merito.

Guardando attentamente alla sentenza si evince che un comportamento che assurge ai caratteri della molestia, come definiti per legge, è sempre di una gravità tale da legittimare il licenziamento.

Alla luce di quanto suesposto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del dipendente, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.

Foto di Anete Lusina