Il D.Lgs. 23/2015, recante la disciplina delle tutele contro il licenziamento illegittimo, è stato oggetto di svariate pronunce della Corte costituzionale: solo nel 2024, la Corte si è pronunciata con sentenza n. 7 sul tema dei licenziamenti collettivi, con sentenza n. 22 sul tema del licenziamento nullo, con sentenza n. 44 con riferimento alle piccole imprese e con sentenza n. 128 con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Contestualmente alla sentenza n. 128, la Corte si è pronunciata nella stessa data (16 luglio 2024) con la sentenza n. 129, che non sancisce l’incostituzionalità del Jobs Act ma che offre alcune importanti considerazioni in relazione ai rapporti tra le previsioni del CCNL e i licenziamenti.
La sentenza trae origine da un caso di licenziamento disciplinare. Il caso specifico riguardava un dipendente che, a fronte di addebiti disciplinari relativi a comportamenti adottati durante un periodo di malattia, aveva subito il licenziamento nonostante tali comportamenti fossero punibili solo con sanzioni di tipo conservativo secondo il contratto collettivo. All’interno del CCNL, infatti, è possibile prevedere che determinate infrazioni siano qualificate come meno gravi, dunque non meritevoli di licenziamento.
Tuttavia, il D.Lgs. 23/2015 limita il rimedio della reintegra alle ipotesi di licenziamento nullo, discriminatorio, intimato in forma orale e di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Il Tribunale di Catania riteneva che tale norma fosse incostituzionale nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di annullare il licenziamento e reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro quando il fatto contestato dal datore, pur disciplinarmente rilevante, è punibile con sanzioni conservative secondo la contrattazione collettiva applicabile.
Tale mancanza, però, a detta della Corte, non comporta l’incostituzionalità della norma, semplicemente perché della norma può darsi una diversa interpretazione.
Infatti, ai sensi dell’art. 30 della L. 183/2010, il giudice, nel valutare le motivazioni alla base del licenziamento, deve tener conto di quanto stabilito nei contratti collettivi; ciò significa che il giudice terrà conto del fatto che il contratto collettivo sancisce che una determinata infrazione non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.
Se nel CCNL è contenuta questa previsione, ne consegue, secondo la Corte, che il fatto materiale contestato al lavoratore è in realtà insussistente; infatti, a detta della Corte, nel momento in cui il CCNL esclude in radice la possibilità di licenziamento per una determinata infrazione, non esiste un fatto materiale che il datore possa contestare; dato, allora, che l’art. 3 D.lgs. 23/2015 sancisce che il lavoratore debba essere reintegrato in caso di insussistenza del fatto materiale contestato, stessa conseguenza si avrà in caso di previsione di sanzione conservativa da parte del CCNL.
La Corte, dunque, pur non dichiarando la norma incostituzionale, offre un’interpretazione che va ad integrare il dettato della norma, includendo un elemento inizialmente non previsto dal legislatore. Ne consegue un ulteriore ampliamento della tutela reintegratoria, non più limitata alle ipotesi di licenziamento nullo, discriminatorio, intimato in forma orale e di insussistenza del fatto materiale contestato, ma ora esteso alle ipotesi in cui ad escludere la sanzione del licenziamento siano i CCNL.
Per questo, le imprese dovranno ora considerare con maggiore attenzione le previsioni del contratto collettivo con riferimento alle sanzioni previste per le varie infrazioni, di modo che ogni decisione di licenziamento sia accompagnata da una valutazione circa il tipo di tutela che, in caso di licenziamento illegittimo, potrebbe essere accordata al lavoratore.
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