NON SONO UTILIZZABILI A FINI DISCIPLINARI LE OFFESE AL SUPERIORE CONTENUTE IN UNA CHAT AZIENDALE

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25731/2021, ha stabilito che i contenuti di una chat aziendale non possono essere utilizzati a fini disciplinari, se l’azienda ha omesso di dare preventiva comunicazione dei controlli effettuati.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Milano aveva dichiarato l’illegittimità di un licenziamento irrogato nei confronti di una lavoratrice, a seguito di controlli effettuati all’interno di una chat aziendale, in cui la dipendente si era resa responsabile di gravi offese nei confronti di un superiore gerarchico e di altri colleghi.

Tre le argomentazioni poste a sostegno della decisione della Corte territoriale.

In primo luogo, l’illegittimità del licenziamento è stata ravvisata a causa dell’inutilizzabilità del materiale estratto dal computer della lavoratrice in conseguenza della violazione dell’art. 4, comma 3, dello Statuto dei lavoratori, nel testo modificato dall’art. 23, comma 1, D. Lgs. 151/2015 e dell’art. 5 D. Lgs. 185/2016, applicabile ratione temporis, in particolare perché la società aveva omesso di dare la necessaria, tempestiva e adeguata informazione ai dipendenti ai sensi di questa disposizione, osservando che la comunicazione dell’interruzione del servizio di chat era stata inviata quando i controlli erano già stati eseguiti.

In secondo luogo, la Corte d’Appello di Milano è giunta alla medesima osservazione, rilevando che le conversazioni litigiose costituivano una forma di corrispondenza privata svolta in via riservata (accesso alla chat possibile solo con l’uso di una password/messaggi leggibili solo dai destinatari), rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15 della Costituzione, con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione.

Infine, la Corte milanese ha escluso un intento denigratorio ed ha ritenuto, quand’anche ammessa per ipotesi l’utilizzabilità, che il contenuto del messaggio di posta elettronica e le espressioni utilizzate costituissero soltanto uno sfogo della mittente destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata.

Avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione cui ha resistito con controricorso la dipendente.

La Suprema Corte, nel rigettare i motivi di doglianza, ha ribadito che l’illegittimità del licenziamento per giusta causa era stata stabilita in ragione dell’inutilizzabilità del materiale contenuto nella chat aziendale e dunque, a causa della violazione dell’art. 4 della Legge n. 300/1970. Tale violazione sussisteva in ragione del fatto che la società non aveva provveduto a comunicare preventivamente ai dipendenti l’effettuazione dei controlli.

Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che il controllo effettuato sul computer aziendale in dotazione alla lavoratrice e determinato da ragioni tecniche e di manutenzione non poteva assumere la natura di “controllo difensivo”, come tale, sottratto al regime dell’art. 4 della Legge n. 300/1970, anche alla luce del fatto che la contestazione disciplinare attenesse esclusivamente al contenuto della chat, non facendo alcun riferimento ad eventuali “inadempienze lavorative o ad un uso anomalo e inappropriato degli strumenti aziendali”. Pertanto, “correttamente la Corte Milanese ha escluso l’utilizzabilità dei dati raccolti, con la conseguenza del venir meno dell’intera base fattuale della contestazione disciplinare”. Peraltro, ai sensi del comma 3 dell’art. 4 della Legge n. 300/1970, il risultato dei controlli difensivi può essere utilizzato per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro solo qualora si stata data adeguata informazione ai dipendenti sull’uso degli strumenti aziendali e sulle modalità dei controlli.

Alla luce delle su estese considerazioni, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Milano, disponendo il rigetto del ricorso.

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