Nullità del patto di prova se è accertata una discriminazione indiretta

Una recente sentenza del Tribunale di Trieste (n. 259/2024) ha analizzato la validità del patto di prova e il suo possibile annullamento per due profili specifici: l’indeterminatezza delle mansioni e la discriminazione indiretta.

Il caso, assistito dal nostro Studio, ha posto in luce gli obblighi dei datori di lavoro verso i lavoratori appartenenti alle categorie protette.

La vicenda riguarda una lavoratrice assunta come “operatore”, con un contratto a tempo indeterminato ai sensi della legge n. 68/1999, riservata alle categorie protette. Il rapporto prevedeva un patto di prova della durata di quattro mesi, al termine del quale il contratto è stato risolto per mancato superamento della prova.

Il ricorso presentato dalla lavoratrice ha evidenziato due aspetti critici: il primo, consistente nell’indeterminatezza del patto di prova, che non specificava con precisione le mansioni assegnate, violando così il principio di specificità richiesto dalla normativa e dalla giurisprudenza; il secondo, incentrato sulla discriminazione indiretta subita dalla lavoratrice, dovuta alla mancata predisposizione di “accomodamenti ragionevoli” necessari per consentire l’effettivo svolgimento delle mansioni, in conformità alla normativa europea e nazionale sulla tutela delle persone con disabilità.

La sentenza ha confermato che il patto di prova deve rispettare rigorosi requisiti di specificità. In particolare, le mansioni devono essere descritte con sufficiente precisione per permettere al lavoratore di comprendere chiaramente il contenuto dell’esperimento lavorativo e al datore di valutare le competenze in relazione alle esigenze aziendali.

Nel caso in esame, le mansioni erano state indicate in modo generico, con riferimento al profilo professionale di “operatore” previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. La Corte ha ritenuto che questa descrizione fosse insufficiente, in quanto non forniva indicazioni specifiche sulle attività operative richieste. La giurisprudenza, infatti, stabilisce che tale specificità deve essere valutata con maggiore rigore nei confronti dei lavoratori disabili, come chiarito dalla Cassazione (sentenza n. 27795/2021).

Un altro punto cruciale della sentenza riguarda la mancata adozione di misure adeguate per supportare la lavoratrice nel periodo di prova. La normativa europea, in particolare la Direttiva 2000/78/CE, e la normativa nazionale, come l’art. 3, comma 3-bis, del D. Lgs. 216/2003, obbligano i datori di lavoro a garantire parità di trattamento adottando accomodamenti ragionevoli. Tali misure includono strumenti tecnologici, supporto formativo e l’assegnazione di un tutor.

Nel caso in esame, il Tribunale ha rilevato che non è stato mai nominato un tutor formale, bensì solo figure di supporto occasionali. In aggiunta a ciò, la lavoratrice ha ricevuto materiale formativo non adeguato alla sua disabilità visiva, come documenti cartacei invece che digitalizzati.

Queste carenze hanno reso il periodo di prova discriminatorio, violando il diritto della lavoratrice a un’effettiva inclusione.

Per tali ragioni, il Tribunale ha dichiarato la nullità del patto di prova per indeterminatezza delle mansioni e ha accertato la condotta discriminatoria del datore di lavoro. In considerazione delle difficoltà riscontrate dalla lavoratrice nel periodo di prova, il risarcimento è stato limitato al danno patrimoniale derivante dalla perdita di chances, stimato nel 30% delle retribuzioni che la lavoratrice avrebbe percepito nel periodo successivo al recesso.

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