Sull’utilizzabilità delle intercettazioni nel procedimento disciplinare

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Se in una recente pronuncia i giudici di legittimità avevano riconosciuto l’utilizzabilità a fini difensivi delle conversazioni registrate dal lavoratore all’insaputa dei colleghi (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 29/09/2022, n. 28398), con l’ordinanza n. 36861 del 15 dicembre 2022, la Corte di Cassazione ha ribadito la piena utilizzabilità nel procedimento disciplinare delle intercettazioni disposte nell’ambito di un procedimento penale.

Le intercettazioni permettono di conoscere e acquisire copia di uno scambio di comunicazioni fra due o più persone. Esse sono annoverate tra i mezzi di ricerca della prova dal codice di procedura penale e vengono disposte dal pubblico ministero su autorizzazione del GIP.

Nel caso di specie, un dipendente Enel era stato licenziato per giusta causa all’esito di un procedimento disciplinare in cui gli venivano contestati una serie di addebiti, tra i quali e per quanto d’interesse in questa sede, l’avere intrattenuto colloqui telefonici – oggetto di intercettazione – con un ex dipendente Enel indagato nell’ambito di un procedimento penale, fornendo a costui informazioni commercialmente sensibili per consentirgli di compiere operazioni illecite in danno della società.

La Corte, accertata la fondatezza degli addebiti contestati, riteneva giustificato il licenziamento dando rilievo sia all’intensità dell’elemento soggettivo dell’illecito (chiaramente intenzionale) che alla delicatezza delle mansioni svolte dal dipendente.

Per la cassazione di tale sentenza faceva ricorso il lavoratore denunciando, in particolare, la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di onere e disponibilità della prova. A giudizio del ricorrente, la Corte territoriale errava nell’aver ritenuto utilizzabili le intercettazioni telefoniche nonostante il procedimento a suo carico si trovasse ancora nella fase delle indagini preliminari, in quanto la verifica sulla legittimità di tali intercettazioni avrebbe potuto essere compiuta unicamente nel processo penale.

La Cassazione, nel respingere la censura mossa dal ricorrente, ha richiamato alcuni principi di diritto consolidati nella giurisprudenza di legittimità.

Il giudice del lavoro, nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, può fondare il proprio convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, poiché il lavoratore può sempre contestare nel giudizio civile i fatti così acquisiti in sede penale.

Inoltre, affinché siano utilizzabili nel procedimento disciplinare le intercettazioni telefoniche o ambientali effettuate in un procedimento penale, è sufficiente che queste siano state disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali. Non ostano a tal fine gli ulteriori limiti previsti dall’art. 270 c.p.p. sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte in altro procedimento penale, in quanto tali stringenti limitazioni in ordine all’acquisizione della prova, derogando al principio fondamentale della ricerca della verità materiale, devono circoscriversi al solo ambito penalistico.

La Suprema Corte ha reputato poi irrilevante l’ulteriore circostanza dedotta dal ricorrente nella memoria conclusiva e relativa all’archiviazione della sua posizione nell’ambito del procedimento penale a suo carico.

Da una parte, il giudicato non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità.

Dall’altra, è pacifico che il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale non ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare nemmeno in ordine all’accertamento dei fatti nella loro materialità, non essendo equiparabile ad una sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto o per non averlo l’imputato commesso.

Con tali argomentazioni, ritenendo infondati anche gli ulteriori motivi dedotti dal ricorrente, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e definitivamente confermato la legittimità del licenziamento irrogato per giusta causa.

Foto di Kevin Ku