NON E’ VIOLAZIONE DELLA PRIVACY L’UTILIZZO A FINI DISCIPLINARI DELLE E-MAIL INVIATE DAL DIPENDENTE

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Con ordinanza n. 15161/2021, la Corte di Cassazione ha chiarito che il datore di lavoro che si avvale a fini disciplinari delle e-mail inviate dal dipendente nell’ambito di una mailing list e segnalate da un partecipante alla stessa, non commette una violazione della privacy.

Nel caso di specie, un dipendente della Azienda Sanitaria Locale ASL Città di Torino e segretario aziendale di un’organizzazione sindacale, aveva ricevuto una contestazione disciplinare per aver inviato in una mailing list del sindacato, in cui si discuteva del progetto di accorpamento delle ASL operanti nella Città di Torino in un’unica Azienda Sanitaria, alcune e-mail offensive nei confronti dei vertici aziendali.

Il procedimento disciplinare si concludeva con l’irrogazione della sanzione della censura, impugnata con ricorso in separata sede giurisdizionale.

Il dipendente, ravvisando una violazione del Codice della Privacy (D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 169), ricorreva al Garante della Privacy chiedendo il blocco dei dati trattati, ma il ricorso veniva ritenuto infondato dal Garante per la protezione dei dati personali. Ad avviso del Garante, le suddette comunicazioni di posta elettronica inerivano a “dati personali” e soggiacevano alla disciplina del codice, ma non erano illecite, essendo state trasmesse all’Azienda a corredo di una segnalazione effettuata da un altro partecipante alla mailing list, al fine di sollecitarne una valutazione in sede disciplinare; l’Azienda resistente non aveva avuto alcun ruolo nella raccolta dei dati ivi contenuti, né aveva effettuato indagini o controlli sulle opinioni del lavoratore, ma li aveva trattati nell’ambito del potere disciplinare spettantegli.

Su ricorso proposto dal dipendente, il Tribunale di Torino confermava la liceità della condotta datoriale ma su presupposti diversi da quelli individuati dal Garante. Il Tribunale riteneva, infatti, che i messaggi di posta elettronica in argomento non rientrassero nella nozione di “dato personale”, di cui all’art. 4 codice privacy, non trattandosi di “un’informazione ovverosia di un elemento identificativo della persona, di un suo tratto o di un suo comportamento”, ma solo di “una dichiarazione che è invero la mera riproduzione del pronunciato o dello scritto”, “testimoniata proprio dal messaggio di posta elettronica”.

Specificava, tuttavia, che il trattamento dei dati in questione, quand’anche configurabili come “sensibili” (art. 4, comma 1, lett. d, codice privacy), non richiedesse comunque il consenso dell’interessato, poiché necessario per adempiere ad un obbligo imposto dalla legge, come nella specie, rientrando nei compiti di istituto connessi all’esercizio del potere disciplinare dell’Azienda Sanitaria, quale pubblica amministrazione, nei confronti dei propri dipendenti.

Avverso la pronuncia del Tribunale di Torino, il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte ha precisato preliminarmente che, a norma dell’art. 4, comma 1, lett. b) codice della privacy, per “dato personale” deve intendersi qualsiasi informazione relativa ad una persona fisica identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione,  cui il codice assimila i “dati identificativi” concernenti “i dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato”.

Pur riconosciuta la configurabilità di “dati personali” nei messaggi di posta elettronica inviati nella mailing list dal dipendente, ha comunque ribadito la non illiceità del “trattamento” di tali dati, facendo proprie le argomentazioni del Garante e del Tribunale, ribadendo in particolare, che in tema di dati personali, il trattamento di dati sensibili non richiede il consenso dell’interessato quando sia necessario per adempiere ad un obbligo imposto dalla legge, come nel caso di svolgimento di attività istituzionali da parte di soggetti pubblici, nelle quali rientrano i compiti connessi all’esercizio del potere disciplinare da parte della Pubblica Amministrazione nei confronti dei propri dipendenti.

Ha dunque rigettato il ricorso del lavoratore, compensando le spese di lite.

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