Il licenziamento di un lavoratore può avvenire solo per giusta causa, giustificato motivo soggettivo o giustificato motivo oggettivo.
Il significato delle espressioni “giustificato motivo soggettivo” e “giustificato motivo oggettivo” è illustrato all’art. 3 della legge n. 604/1966: il primo corrisponde a un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali; il giustificato motivo oggettivo, invece, non riguarda un comportamento del lavoratore, bensì l’attività produttiva nel suo complesso; ad esempio, la soppressione di un posto di lavoro può determinare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il licenziamento per giusta causa è invece riferito a casi più gravi, tanto che in questi casi non è necessario dare al lavoratore un preavviso: come afferma l’art. 2119 c.c., la giusta causa è una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
Con ordinanza n. 1686 del 16/01/2024, la Corte di Cassazione ha chiarito il significato di quest’ultima espressione. Il caso riguardava una lavoratrice licenziata per aver proferito alla responsabile del punto di vendita e in presenza delle colleghe le seguenti parole: “ce l’ho in pugno, ho fotografato dei capi da uomo e dico che li vende”; “queste fotografie sono la mia assicurazione”; “ho vinto, ho vinto”. La lavoratrice, infatti, sosteneva che la responsabile del punto vendita vendesse agli addetti merce capi di abbigliamento non facenti parte del negozio; circostanza appurata come non veritiera.
La Corte d’Appello aveva dunque confermato il licenziamento della lavoratrice, in quanto il suo comportamento integrava gli estremi della minaccia grave e dell’insubordinazione. La lavoratrice, invece, sosteneva che le parole proferite non potevano costituire minaccia grave, in quanto non era derivato alcun danno né per la società né per le sue colleghe.
La Cassazione afferma, anzitutto, che è condivisibile qualificare il comportamento della lavoratrice come minaccia grave, ossia manifestazione della volontà di arrecare un danno ingiusto. Ma, ai fini del licenziamento per giusta causa, non è necessario che la condotta di un lavoratore sia inquadrabile in una determinata condotta-tipo: infatti, il concetto di “giusta causa” ha un significato volutamente generico e non sufficientemente preciso, in quanto deve essere adattato a casi concreti che possono essere estremamente diversi tra loro. Per cui, il significato di “giusta causa” verrà interpretato dai giudici di volta in volta a seconda delle peculiarità del caso concerto, prendendo in considerazione le regole morali e di condotta normalmente ritenute applicabili nell’ambiente di lavoro.
La lavoratrice, dunque, era stata licenziata non tanto perché la sua condotta costituiva formalmente minaccia grave, ma perché era nel complesso contraria alle regole dell’etica e del comune vivere civile.
Di conseguenza, la Cassazione rigetta il ricorso della lavoratrice confermando il licenziamento.
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