Mobbing e straining: conta l’effetto delle condotte

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La recente ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 31912/2024, ha portato un contributo importante al dibattito giuridico su mobbing e straining, ribadendo che la qualificazione formale delle condotte non è determinante rispetto alla sostanza dei fatti e agli effetti sulle condizioni del lavoratore.


La vicenda in esame nasce dalla domanda proposta da una lavoratrice contro il Comune datore di lavoro, imputando a quest’ultimo condotte mobbizzanti riconducibili sia all’ente che ai suoi dirigenti. La lavoratrice aveva lamentato un ambiente lavorativo lesivo della propria salute, in violazione degli obblighi previsti dagli articoli 2087 e 2103 c.c., e aveva richiesto il risarcimento dei danni conseguenti.


Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello avevano respinto le istanze, rilevando la mancanza di sistematicità e di un disegno persecutorio unitario – elementi ritenuti essenziali per configurare il mobbing. Tuttavia, la lavoratrice aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che anche condotte meno strutturate potessero integrare un pregiudizio risarcibile.


Con questa ordinanza, la Cassazione accoglie in parte il ricorso della lavoratrice, affermando un principio significativo: “Le nozioni di mobbing e straining hanno una valenza meramente sociologica e non sono di per sé rilevanti ai fini giuridici. Ciò che conta è il configurarsi di una condotta datoriale illegittima, anche solo per colpa, tale da generare un ambiente lavorativo stressogeno e dannoso per la salute del lavoratore.”


La Corte sottolinea che l’obbligo del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2087 c.c. è quello di prevenire ogni possibile danno alla salute del lavoratore, anche quando le singole condotte non siano formalmente illecite. Il focus è quindi sugli effetti concreti delle condotte e sul nesso causale con il danno subito.
La distinzione tra mobbing e straining è spesso al centro delle controversie giuslavoristiche. Il mobbing si caratterizza per la sistematicità delle condotte, un disegno persecutorio unitario e l’intento di emarginare il lavoratore.


Lo straining, invece, si configura come una forma attenuata di vessazione, priva di sistematicità ma comunque sufficiente a creare un ambiente lavorativo ostile o insostenibile.
La Cassazione chiarisce che queste classificazioni, pur utili per descrivere i fenomeni, non devono ostacolare il riconoscimento del diritto del lavoratore alla tutela e al risarcimento, quando è dimostrato un danno alla salute in violazione dell’articolo 2087 c.c.


Un altro aspetto cruciale affrontato dall’ordinanza riguarda l’onere della prova. La Corte ribadisce che spetta al lavoratore dimostrare le condotte denunciate nonché il nesso causale tra queste e il danno subito.


Al datore di lavoro, invece, compete provare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire il pregiudizio. Il giudice, infine, deve valutare il materiale probatorio in modo complessivo, considerando anche condotte che, singolarmente, potrebbero apparire irrilevanti.