Licenziamento nullo anche se la lavoratrice supera il comporto

Con l’ordinanza n. 12060 del 7 maggio 2025, la Corte di Cassazione torna ad affermare un principio di particolare rilevanza in materia di tutela della maternità e licenziamento, chiarendo che il divieto imposto dall’art. 54 del D.lgs. 151/2001 si applichi anche nei casi in cui la lavoratrice abbia superato il periodo di comporto previsto dall’art. 2110 c.c.

La Suprema Corte, con questa ordinanza, si inserisce in un orientamento giurisprudenziale già consolidato, che rafforza il significato del divieto di licenziamento legato alla maternità quale misura inderogabile a presidio della dignità e della sicurezza economica e lavorativa della donna, anche a fronte di motivazioni normalmente legittimanti la cessazione del rapporto di lavoro.

Infatti, secondo i giudici di legittimità, la tutela della gravidanza prevale sulla disciplina generale in materia di malattia, con la conseguente nullità del licenziamento, anche se giustificato dal superamento del periodo massimo di assenza per malattia.

Nel caso di specie, una lavoratrice era stata licenziata per superamento del comporto. Tuttavia, al momento del recesso risultava essere in stato di gravidanza. La Corte d’Appello di Catanzaro aveva già annullato il licenziamento, riconoscendo l’applicabilità della tutela rafforzata prevista dal D.lgs. 151/2001, statuizione che la Cassazione ha ora confermato rigettando il ricorso della società datrice di lavoro.

La Suprema Corte sottolinea che il divieto di licenziamento introdotto dall’art. 54 D.lgs. 151/2001 è una norma speciale, finalizzata alla protezione della maternità e dunque prevalente rispetto alla regola ordinaria contenuta nell’art. 2110 c.c.

Secondo la pronuncia: «Il divieto di licenziamento dettato dalle disposizioni a tutela della maternità introduce una deroga alla intera disciplina limitativa dei licenziamenti, rendendo irrilevante anche il superamento del periodo di comporto».

Inoltre, la Corte aggiunge che il divieto opera in virtù dello stato oggettivo di gravidanza, indipendentemente dalla consapevolezza del datore di lavoro e senza che rilevi la comunicazione o la conoscenza di tale condizione da parte della lavoratrice.

La Corte chiarisce: «Nessun rilievo può attribuirsi al riferimento tuttora contenuto nell’art. 2110 c.c. anche alla gravidanza, dato il carattere certamente prevalente della disciplina dettata a tutela della maternità, con una normativa di carattere specifico e temporalmente successiva».

Dunque, anche laddove si verifichi un’assenza prolungata per malattia, il datore di lavoro non può licenziare se, al momento del recesso, la lavoratrice è in stato di gravidanza. La protezione della maternità – prosegue la Corte – risponde a un’esigenza superiore, quella di tutelare una fase particolarmente delicata della vita della donna, e non può essere intaccata da logiche giustificatrici che troverebbero fondamento in altri contesti.

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