La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24204 del 29 agosto 2025, torna a pronunciarsi sul tema dei limiti al controllo della corrispondenza elettronica da parte del datore.
Il caso riguardava alcuni ex dipendenti accusati di concorrenza sleale nei confronti della società H2H Srl. L’azienda aveva prodotto in giudizio e-mail estratte dai server aziendali, ma provenienti da account di posta elettronica personali, protetti da password. La società sosteneva che tali messaggi fossero liberamente accessibili, in quanto confluiti su dispositivi aziendali.
La Suprema Corte, invece, ha ribadito che la tutela della vita privata e della corrispondenza, sancita dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si estende anche alle e-mail personali inviate o ricevute nei locali dell’impresa: “Le comunicazioni trasmesse dai locali dell’impresa nonché dal domicilio di una persona possono essere comprese nella nozione di ‘vita privata’ e di ‘corrispondenza’ di cui all’articolo 8 della Convenzione”.
Non solo: i giudici hanno richiamato la celebre sentenza Barbulescu della Corte EDU (Grande Camera, 5 settembre 2017, ric. n. 61496/08), che aveva già stabilito criteri precisi per la liceità dei controlli datoriali, ossia finalità legittima, proporzionalità e preventiva informazione ai lavoratori.
Come sottolinea la Cassazione: “Non è consentita un’attività di controllo massivo, mentre sono indispensabili opportune informative in merito alla possibile attività di controllo, con esclusione, in tale ottica, di controlli preventivi proprio perché si esulerebbe dal piano difensivo”.
Il datore di lavoro, pur potendo tutelarsi contro condotte sleali dei propri dipendenti, deve rispettare regole stringenti. La Cassazione ha infatti chiarito che la consultazione della posta elettronica privata senza consenso o adeguata informativa costituisce una violazione del diritto alla riservatezza.
In linea con precedenti consolidati (Cass. n. 18302/2016), i giudici ribadiscono che sono illegittimi i controlli effettuati tramite sistemi informatici installati senza il rispetto delle procedure previste dall’art. 4 Statuto dei lavoratori e dalla normativa privacy.
Alla luce di ciò, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando l’inutilizzabilità delle e-mail come prova e la mancanza di elementi idonei a dimostrare la responsabilità degli ex dipendenti.
Conclude la sentenza: “La società non aveva dimostrato di avere impartito specifiche disposizioni finalizzate a regolamentare le modalità di controllo e/o di duplicazione della corrispondenza dei lavoratori”.
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