Errato inquadramento del lavoratore, risarcibile il danno da perdita di chance

I lavoratori subordinati, a norma dell’art. 2095 del Codice civile, “si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai”. Ferma questa distinzione fondamentale, i contratti collettivi indicano i requisiti di appartenenza a ciascuna categoria, attraverso una descrizione delle mansioni contemplate da ciascun livello inquadramentale.

Naturalmente, a superiore categoria corrispondono maggiori responsabilità nonché migliore trattamento retributivo. Di conseguenza, un non corretto inquadramento professionale fa sì che il lavoratore possa pretendere diverse voci di danno. Tra queste, il danno da perdita di chance.

Infatti, ai sensi dell’art. 1223 del Codice civile, in caso di inadempimento del contratto di lavoro, i danni che il datore è chiamato a risarcire comprendono sia la perdita subita dal lavoratore che il mancato guadagno.

Protagonista del caso giunto di recente innanzi alla Corte di Cassazione è una dipendente dell’Agenzia Spaziale Italiana, la quale, essendo stata inquadrata, non correttamente, al quarto livello del CCNL di riferimento, non aveva potuto partecipare al concorso interno per la progressione al livello secondo. La lavoratrice poté partecipare ad altro concorso solo in epoca successiva, ottenendo alla fine il superiore livello inquadramentale.

La Corte d’Appello di Roma aveva dunque condannato l’Agenzia Spaziale Italiana al risarcimento dei danni: infatti, se la lavoratrice fosse stata sin dall’inizio correttamente inquadrata, con tutta probabilità si sarebbe collocata tra i vincitori del primo concorso, ottenendo in anticipo il superiore inquadramento.

L’amministrazione aveva fatto ricorso in cassazione sulla base di due motivi: il primo riconducibile al fatto che la lavoratrice non aveva presentato domanda di partecipazione con riserva al concorso interno, comportamento questo che, a detta dell’Agenzia, aveva interrotto il nesso causale tra la condotta inadempiente del datore di lavoro e la perdita di chance da parte della lavoratrice; in secondo luogo, l’Agenzia sosteneva che l’errore compiuto fosse scusabile, in quanto l’amministrazione si trovava ad applicare una normativa nuova e dunque di non agevole interpretazione.

La Cassazione, con ordinanza n. 35432 del 1/12/2022, rammenta come, in tema di nesso di causalità, la norma da attenzionare sia l’art. 41, comma 2, del Codice penale: “Le cause sopravvenute escludono il nesso di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”.  La Corte si chiede, dunque, se la mancata presentazione, da parte della lavoratrice, della domanda di partecipazione con riserva al concorso possa essere stata, da sola, causa sufficiente a determinare la perdita di chance; ossia, se presentando la domanda di partecipazione, la lavoratrice avrebbe sicuramente potuto prendere parte al concorso interno. La Suprema Corte conclude che la lavoratrice si sarebbe garantita al massimo una mera possibilità di prendere parte al concorso; ergo, l’omissione della domanda con riserva non era stata causa sufficiente a determinare la perdita di chance, in quanto la lavoratrice non era in ogni caso inquadrata al livello professionale richiesto dal bando.

Dato, inoltre, che l’art. 41 c.p. deve essere letto in combinato con l’art. 40 c.p., la condotta omissiva della lavoratrice avrebbe potuto portare all’esclusione del risarcimento solo ai sensi della seconda norma: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Tuttavia, non esiste alcuna norma che imponga al lavoratore o alla lavoratrice l’obbligo di chiedere ammissione con riserva a un concorso, né la lavoratrice in questione avrebbe avuto l’onere di attivare la tutela cautelare giudiziale: ciò in quanto, secondo una consolidata giurisprudenza della Cassazione, il ricorso al giudice costituisce in ogni caso attività gravosa e rischiosa.

Riguardo la scusabilità dell’errore dell’amministrazione, la Suprema Corte rammenta come, nel caso di specie, si sia in presenza non di un provvedimento amministrativo illegittimo, bensì di responsabilità contrattuale: infatti, nell’ambito del pubblico impiego, l’amministrazione datrice non esercita un potere sul lavoratore, bensì si trova in posizione analoga rispetto a quella del datore di lavoro privato. Di conseguenza, l’Agenzia non può usufruire del concetto di scusabilità dell’errore, caratteristico del diritto amministrativo, ma risponde dell’inadempimento contrattuale, salva la possibilità di provare la non imputabilità dello stesso. La Cassazione rigetta quindi il ricorso, confermando la sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva condannato l’amministrazione al risarcimento dei danni, consistenti nelle differenze retributive che la lavoratrice avrebbe ottenuto qualora non fosse stata inquadrata tardivamente nel superiore livello professionale.

Foto di Nataliya Vaitkevich