Integra giusta causa di licenziamento l’(ab)uso di una singola giornata di permesso sindacale per finalità personali

Lo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970), al fine di tutelare e sostenere il libero svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, attribuisce ai lavoratori che rivestono cariche di vertice nell’ambito delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) o nell’ambito delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) il diritto di astenersi dal lavoro per l’adempimento del loro fondamentale ruolo.

Il diritto del sindacalista di godere dei permessi è pieno e incondizionato; pertanto, non richiede alcuna concessione o autorizzazione da parte del datore di lavoro. La legge prevede esclusivamente in capo al lavoratore l’obbligo di comunicare al datore la propria volontà di usufruire di permessi sindacali e rimette alla contrattazione collettiva l’individuazione delle modalità di esercizio di tale diritto.

L’art. 30 dello Statuto, in particolare, riconosce in capo ai componenti degli organi direttivi dei sindacati esterni collegati alle RSA di usufruire di permessi retribuiti al fine esclusivo di partecipare alle riunioni degli organi suddetti. Tali permessi, come chiarito dalla giurisprudenza, non possono essere quindi utilizzati dai sindacalisti per il generico espletamento del loro mandato, né ovviamente per il soddisfacimento di mere esigenze personali.

Al riguardo il datore, pur non potendo ostacolare in alcun modo la decisione del lavoratore di esercitare il diritto in questione, condotta che si qualificherebbe come antisindacale e conseguentemente potrebbe essere sanzionata, può esercitare ex post il proprio potere di controllo, onde verificare la sussistenza dei presupposti che legittimano la fruizione di tali permessi e l’effettiva utilizzazione degli stessi per le finalità individuate dalla norma.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26198 del 6 settembre 2022, ha avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore, il quale aveva usufruito dei permessi previsti dall’art. 30 dello Statuto per finalità personali.

Il lavoratore, che aveva impugnato il licenziamento ma si era visto rigettare la domanda sia in primo che secondo grado, riteneva che dovesse dichiararsi l’illegittimità dell’atto di recesso datoriale principalmente per due ordini di ragioni.

In primo luogo, il ricorrente sosteneva che l’indebita fruizione del permesso sindacale dovesse considerarsi al pari di un’assenza ingiustificata e, pertanto, deduceva la violazione di legge e del contratto collettivo di categoria nella parte in cui prescriveva l’applicazione di una sanzione conservativa (multa o sospensione dal lavoro e della retribuzione) per l’ipotesi in cui il lavoratore non si presenti al lavoro o abbandoni il proprio posto di lavoro senza giustificato motivo e per non più di cinque giorni.

In secondo luogo, deduceva la violazione dell’art. 2119 c.c., ritenendo insussistente la giusta causa di licenziamento, stante l’inidoneità di un unico episodio contestato a compromettere l’affidabilità del dipendente in ordine alla correttezza dei futuri adempimenti.

La Cassazione, tuttavia, non ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente e sulla base delle seguenti motivazioni ha rigettato il ricorso.

Quanto al primo motivo di censura suindicato, viene confutata la prospettazione del ricorrente tesa a ricondurre la propria condotta ad un’ipotesi di mera assenza dal lavoro. A giudizio della Suprema Corte, la condotta del dipendente va qualificata giuridicamente in termini di abuso del diritto, essendo connotata da un’indebita utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; circostanza che esclude la riconducibilità di siffatta condotta alle norme del contratto collettivo che puniscono con sanzione conservativa l’assenza ingiustificata dal posto di lavoro.

Infine, con riferimento all’asserita insussistenza di una giusta causa di licenziamento, i giudici di legittimità hanno evidenziato come la lesione del vincolo fiduciario, che giustifica il recesso datoriale, investe “la generalità dei possibili futuri inadempimenti del lavoratore”, respingendo l’opposta argomentazione di parte ricorrente fondata sull’unicità e irripetibilità della condotta addebitata.

Foto di Ono Kosuki