La volontà del lavoratore di dimettersi può desumersi dall’assenza dal lavoro ingiustificata e protratta nel tempo

Il d.lgs. n. 22 del 2015 offre tutela ai lavoratori contro la disoccupazione involontaria, in applicazione dell’art. 38 Cost., garantendo un’indennità di disoccupazione, la Naspi, a coloro che dichiarino la propria immediata disponibilità a svolgere un’altra attività lavorativa.

Tra gli eventi di disoccupazione involontaria sono incluse certamente le ipotesi di licenziamento, anche se determinato da giusta causa, mentre sono escluse le ipotesi di dimissioni volontarie e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Conseguentemente, si è formata nel corso degli anni la prassi da parte di taluni lavoratori che abbiano inteso concludere anticipatamente il proprio rapporto di lavoro, di assentarsi senza giustificazione dal lavoro al fine di farsi licenziare e di poter usufruire della Naspi.

Una recente decisione del Tribunale di Udinesentenza n. 20 del 27 maggio 2022 – ha affrontato tale problematica dando una coraggiosa interpretazione della normativa esistente.

Il caso di specie riguardava la dipendente di una società specializzata nella gestione di mense e servizi di ristorazione che aveva impugnato la risoluzione del rapporto di lavoro con la causale “dimissioni”, poiché sosteneva di non aver mai presentato dimissioni formali, né di aver convalidato l’atto risolutivo presentato dalla società.

Il Tribunale, tuttavia, sulla base di quanto dedotto dalla società convenuta e di quanto accertato in fase istruttoria, ha ritenuto che la volontà dismissiva della lavoratrice fosse dimostrata inequivocabilmente, sia dal non aver fornito alcun giustificativo per essersi assentata dal lavoro per un periodo di oltre sei mesi e per non aver dato alcun riscontro alle richieste di chiarimenti pervenutele dalla società datrice, sia per aver comunicato esplicitamente alla propria responsabile, in un momento antecedente al lungo periodo di assenza, il proprio intento di voler concludere il rapporto lavorativo.

Per queste ragioni, il giudice ha ravvisato nel comportamento delle parti un’ipotesi di risoluzione tacita o per fatti concludenti del rapporto di lavoro e la conseguente applicabilità degli artt. 2118 e 2119 c.c., che sanciscono la regola generale della libera recedibilità da parte del lavoratore.

La specifica disciplina – introdotta con il d.lgs. n. 151 del 2015 – che stabilisce che le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro debbano essere effettuate, a pena di inefficacia, con modalità esclusivamente telematiche sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e secondo la procedura ivi prevista, non deve trovare applicazione in un caso come quello di specie, perché la ratio di tale novella legislativa è quella di garantire l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore e di prevenire abusi da parte del datore, con particolare riferimento, al fenomeno delle cd. “dimissioni in bianco”.

Nel caso in oggetto, la genuinità della volontà dismissiva della lavoratrice è stata ampiamente provata; ritenere di dover richiedere, per la risoluzione del rapporto di lavoro, la necessaria applicazione della procedura di cui sopra o l’adozione di un licenziamento per giusta causa, porterebbe ad una soluzione irragionevole e di dubbia compatibilità costituzionale.

Al riguardo, il giudice ha richiamato:

– l’art. 41 Cost., perché tale soluzione si tradurrebbe in una coartazione ingiustificata della libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale, trovandosi il datore costretto a licenziare il dipendente e a versare il cd. ticket Naspi all’Inps – volto a finanziare la misura e pagato in percentuale per ogni dipendente licenziato o che si sia dimesso per giusta causa – pur a fronte di una libera decisione del lavoratore di non proseguire il rapporto di lavoro;

– il già citato art. 38 Cost., perché la conseguente corresponsione dell’indennità di disoccupazione, determinerebbe un’ingiusta sottrazione di quelle risorse da destinarsi a coloro che effettivamente si trovino in una situazione di disoccupazione involontaria.

Sulla scorta di queste argomentazioni, il Tribunale ha rigettato la domanda attorea, compensando, tuttavia, le spese di lite, stante il carattere di novità di una sentenza destinata a fare scuola.

Foto di Karolina Grabowska