Le registrazioni delle conversazioni sul luogo di lavoro

Il tema della protezione dei dati personali è cruciale nel mondo contemporaneo, dove le informazioni sensibili e le comunicazioni private sono costantemente a rischio di esposizione. Infatti, il regolamento europeo 2016/679 (così detto GDPR – General Data Protection Regulation) qualifica la protezione dei dati personali come diritto fondamentale.

Al contempo, la normativa europea precisa che il diritto alla privacy va considerato alla luce della sua funzione sociale; di conseguenza, esso va bilanciato con altre necessità, come quella di tutelare i propri diritti in sede giudiziale.

La Corte di Cassazione è tornata sul tema con la sentenza n. 17715 del 27/06/2024. Nel caso in esame, un lavoratore aveva registrato di nascosto la conversazione intrattenuta con un professore universitario associato all’azienda datrice di lavoro. La registrazione era stata poi pubblicata su Facebook in modo capzioso, con l’intento di seminare sospetti sull’operato dell’azienda.

Ancor prima di tale avvenimento, il lavoratore aveva avviato una procedura di whistleblowing, ossia di denuncia di illeciti verificatisi sul posto di lavoro e consistenti nella sottrazione di fondi pubblici. Sennonché, in primo luogo, la segnalazione non era stata effettuata secondo le modalità previste dalla normativa; in secondo luogo, dalla relazione del responsabile anticorruzione non era emersa alcuna anomalia.

La condotta complessiva del lavoratore aveva portato l’azienda a licenziarlo, in quanto costituiva una violazione del CCNL di categoria e  determinava la lesione del rapporto fiduciario con l’azienda; ciò a maggior ragione considerato il fatto che il lavoratore in questione era un dirigente, quindi titolare di particolari responsabilità nei confronti del personale.

Il lavoratore si era opposto al licenziamento affermando che la registrazione audio era stata pubblicata nell’ambito del procedimento di whistleblowing; per cui, il dirigente affermava di avere diritto alle tutele accordate ai dipendenti che segnalino comportamenti contrari alla legge.

Generalmente, come anticipato, la possibilità per un lavoratore di registrare conversazioni con colleghi a loro insaputa è consentita dalla giurisprudenza italiana, a patto che tale azione sia finalizzata a tutelare un diritto in giudizio, ossia a raccogliere le prove necessarie per difendersi. In tal senso, il diritto alla privacy viene bilanciato con un ulteriore diritto fondamentale, ossia quello alla tutela giurisdizionale dei diritti.

La Corte di Cassazione ha rilevato, invece, che il comportamento del lavoratore in questione non era giustificato da una necessità difensiva. Infatti, in primo luogo, è emerso che l’unico fine del lavoratore era quello di gettare discredito sui dipendenti dell’azienda – peraltro con l’aggravante della pubblicazione su un social network – e non di tutelare la propria posizione in azienda; in secondo luogo, la registrazione non presentava alcun collegamento con la procedura di whistleblowing e, in ogni caso, la pubblicazione su Facebook non costituiva una modalità di denuncia compatibile con la normativa riguardante la segnalazione degli illeciti sul posto di lavoro.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e conferma il licenziamento comminato al lavoratore.

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