Licenziamento ritorsivo: valutazione dell’attività di whistleblower

Nel contesto lavorativo, il D.Lgs. 165 del 2001, con l’art. 54-bis, predispone una particolare tutela per il dipendente pubblico che, nel garantire la trasparenza e l’etica aziendale, segnali o denunci comportamenti contrari alla legge (il cosiddetto “whistleblower”): egli non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altre misure aventi effetti negativi sulle sue condizioni di lavoro.

In caso di adozione di tali misure da parte del datore di lavoro, egli dovrà dimostrare che le stesse sono motivate da ragioni estranee alla denuncia, e dunque che non si qualificano come misure discriminatorie o ritorsive; in assenza di prove in tal senso, la misura adottata sarà nulla (dunque, nel caso in cui il lavoratore sia stato licenziato, egli verrà reintegrato nel posto di lavoro).

Tuttavia, non è raro che i dipendenti che segnalano violazioni interne si trovino ad affrontare situazioni di ritorsione, tra cui il rischio di licenziamento.

Recentemente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12688 del 9 maggio 2024, ha ribadito l’importanza di considerare l’attività del whistleblower nel contesto di un licenziamento disciplinare contestato per presunta ritorsione.

Nel caso in esame un dipendente, che aveva presentato diverse segnalazioni di violazioni aziendali, è stato licenziato per un motivo diverso da quelli denunciati. Successivamente, il dipendente ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando che la Corte territoriale non avesse considerato il carattere ritorsivo del licenziamento collegato alla sua attività di whistleblower.

La Corte di Cassazione ha in primo luogo respinto l’idea che la presenza di una causa legittima per il licenziamento escluda automaticamente la possibilità di ritorsione, dopodiché ha sottolineato che il giudice deve considerare il contesto lavorativo nel valutare la legittimità del licenziamento, sostenendo che “[…] nello specifico, se il fatto omissivo contestato a […] non appare in sé direttamente collegabile alle denunce dallo stesso presentate; tuttavia, è il contesto in cui l’addebito disciplinare si inserisce e il dedotto esautoramento di attribuzioni, anche in un’ottica di individuazione delle competenze del predetto, che assumono rilevanza al fine di meglio delineare la relativa responsabilità”.

Il datore di lavoro, dal canto suo, è tenuto a dimostrare la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento irrogato. Solo se l’onere è assolto anche formalmente, spetta al lavoratore documentare il carattere ritorsivo del provvedimento come unico fattore determinante.

In ultima analisi, i giudici della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso del dipendente, sottolineando l’importanza di una valutazione accurata e completa delle circostanze di un licenziamento disciplinare, specialmente nel caso in cui si sospetti una motivazione ritorsiva.

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