Il licenziamento ritorsivo costituisce un’ ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore e rientra tra le ipotesi di licenziamento vietate dalla legge in quanto intimato esclusivamente per tale motivo illecito.
Il lavoratore licenziato per un motivo illecito ha diritto ad una tutela reale piena, ossia alla reintegrazione nel posto di lavoro e al riconoscimento di un’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum, comunque di misura non inferiore a cinque mensilità.
Tuttavia, non è affatto agevole per il lavoratore provare l’intento ritorsivo di un licenziamento: esso deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto deve risultare insussistente nel riscontro giudiziale.
Trattandosi in un certo senso di probatio diabolica, il lavoratore potrebbe avere interesse ad utilizzare in giudizio delle conversazioni registrate sul luogo di lavoro che ritiene provino l’illiceità del comportamento datoriale.
La Cassazione ha affrontato la questione, con la sentenza n. 28398 del 29 settembre 2022 , richiamando la giurisprudenza consolidatasi in materia.
Nel caso di specie, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento disciplinare intimatole.
La Corte di Appello di Salerno, confermando quanto statuito dal giudice di primo grado, aveva riconosciuto l’illegittimità del licenziamento sul presupposto che gli addebiti contestati alla dipendente fossero privi di riscontro probatorio e che comunque non avessero quel carattere di gravità tale da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa, secondo quando previsto dal contratto collettivo applicabile.
In ragione di ciò, la Corte di Appello confermava la condanna della società datoriale alla reintegra nel posto di lavoro della dipendente e al pagamento in favore di quest’ultima dell’indennità risarcitoria come determinata dal giudice di primo grado, ossia deducendo anche l’aliunde percipiendum e in misura non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Alla lavoratrice veniva infatti riconosciuta una tutela reintegratoria attenuata, secondo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, poiché era stato escluso che l’intento ritorsivo del licenziamento potesse considerarsi provato in base alle “abusive, illegittimamente captate e registrate conversazioni” tra la lavoratrice e i suoi colleghi, considerate dai giudici di appello non idonee a costituire fonte di prova.
Avverso la sentenza di secondo grado, proponevano ricorso sia la società che la lavoratrice.
La Cassazione, dopo aver rigettato le doglianze del datore di lavoro dirette principalmente a sostenere la legittimità dell’atto di recesso irrogato, ha esaminato il ricorso incidentale proposto dalla lavoratrice.
La lavoratrice sosteneva che la Corte di Appello non avesse riconosciuto la ritorsività del licenziamento sulla base di un presupposto errato e cioè la non utilizzabilità delle registrazioni di conversazioni tra presenti, sebbene anche la controparte non avesse in alcun modo contestato lo svolgimento dei colloqui registrati e il relativo contenuto.
La Cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità aveva già statuito che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione potesse costituire fonte di prova, ai sensi dell’art. 2712 c.c., “se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, nè che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra i quali la conversazione si svolge, sia parte in causa“.
D’altronde, nella necessaria operazione di bilanciamento tra diritto alla riservatezza dei colleghi registrati a loro insaputa e diritto di difesa (o azione) della lavoratrice, ben può riconoscersi prevalenza al secondo, se le registrazioni vengono utilizzate esclusivamente per le finalità di tutela giurisdizionale dei propri diritti e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Tali argomentazioni sono ancor più pregnanti nell’ipotesi di specie, stante le “difficoltà di assolvimento dell’onere probatorio gravante sul lavoratore che denunci la ritorsività del licenziamento intimatogli”.
Per questi motivi, la Suprema Corte ha accolto il ricorso incidentale ed ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, affinché la Corte di Appello, in diversa composizione, esamini nuovamente la fattispecie alla luce dei principi di diritto richiamati.
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