Negoziante condannato per aver adibito un commesso a mansioni usuranti

Lo svolgimento del rapporto di lavoro è disciplinato in modo puntuale e oculato dalla normativa e dalla giurisprudenza di riferimento, in particolare in ottica di tutela delle condizioni psicofisiche del lavoratore. D’altronde, la Costituzione riserva una serie di articoli a versanti critici e storicamente problematici del rapporto di lavoro: tra gli altri, il tema della retribuzione, della durata massima della giornata lavorativa, del riposo settimanale e delle ferie annuali retribuite (art. 36 Cost.). In generale, la Costituzione si premura di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Cost.).

La necessità, per l’ordinamento, di attenzionare le condizioni del lavoratore, è dettata dalla tendenziale subalternità dello stesso rispetto all’imprenditore, e dunque dalla disparità di potere contrattuale tra i due: storicamente, il nostro sistema economico è caratterizzato da un’offerta di lavoro sensibilmente superiore alla domanda, con conseguente necessità, da parte del lavoratore, di adattarsi a quanto richiesto e preteso dal datore.

Recentemente, il Tribunale di Milano, con sentenza pubblicata l’8 agosto 2022, ha condannato il negoziante di un minimarket a pagare un’ingente somma di danaro in conseguenza di molteplici violazioni della normativa in materia di lavoro.

Il lavoratore ricorrente era stato impegnato nel minimarket in questione – dapprima in maniera non regolare, e successivamente venendo assunto con contratto a tempo indeterminato – per ben 15 ore al giorno, con pausa di soli 30 minuti, e senza poter usufruire del riposo settimanale.

Inoltre, egli era stato adibito a mansioni di livello superiore rispetto all’inquadramento professionale dettato nel contratto, venendo dunque pagato meno rispetto a quanto gli sarebbe spettato. Infatti, ai sensi dell’art. 2103, comma 7, c.c.: “Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta (…)”.

Da ultimo, trascorsi circa cinque mesi dalla stipula del contratto, il lavoratore era stato licenziato mediante comunicazione orale e senza alcun preavviso.

Pronunciandosi in merito al differente inquadramento contrattuale rispetto alle mansioni effettivamente svolte, il giudice, per prima cosa, rammenta che è onere del lavoratore, ai sensi dell’art. 2697 c.c., provare il fatto costitutivo, ossia la circostanza per cui ha svolto in concreto mansioni differenti e di livello superiore rispetto a quanto previsto nel contratto. Attraverso prove testimoniali, il lavoratore aveva efficacemente dimostrato di aver svolto attività di commesso, contemplata al quarto livello professionale del CCNL di riferimento, quando, formalmente, egli era stato inquadrato al settimo livello. Per cui il giudice dichiara la spettanza della corrispondente maggiore retribuzione, e dunque il diritto alla corresponsione delle differenze retributive.

Attraverso le medesime prove testimoniali, il ricorrente aveva peraltro dimostrato di aver osservato un orario di lavoro marcatamente eccessivo rispetto ai massimi stabiliti dalla legge, senza, peraltro, poter usufruire del riposo settimanale.

Sul punto, la Costituzione rinvia alla legge per la determinazione dell’orario normale di lavoro, il quale, a oggi, è fissato a 40 ore settimanali, con possibilità, per i contratti collettivi, di stabilire una durata minore (art. 3 D.Lgs. 66/2003). È la Costituzione stessa, invece, che afferma il diritto del lavoratore al riposo settimanale, il quale, tuttavia, non deve necessariamente coincidere con la domenica (cfr. Cass. 5356/1986).

Ritiene il Tribunale di Milano, richiamando una sentenza della Cassazione sul punto (Cass. 18884/2019), che la abnorme violazione della normativa in materia di orario di lavoro e di riposo settimanale determini, oltre al riconoscimento degli straordinari, la configurabilità di un danno non patrimoniale che deve essere presunto, e quindi non necessariamente dimostrato, in quanto l’interesse del lavoratore ha diretta copertura costituzionale.

La pronuncia della Cassazione da ultimo citata, inoltre, rimarcava come l’eventuale previsione di un compenso maggiorato per lo svolgimento di attività lavorativa in un giorno festivo non avrebbe mai potuto condizionare il diritto del lavoratore al riposo settimanale, che è diritto indisponibile, da garantire a prescindere da una richiesta da parte del lavoratore e riconosciuto, oltre che dalla Costituzione, anche dall’art. 5 della direttiva 2003/88/CE: “Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, per ogni periodo di 7 giorni, di un periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore (…)”.

Da ultimo, il ricorrente lamentava di essere stato licenziato mediante comunicazione orale. In proposito, è utile rammentare come, con riferimento a un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il licenziamento può essere attuato solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, secondo il disposto dell’art. 1 L. 604/1966; inoltre, il licenziamento deve essere comunicato per iscritto, indicando i motivi che lo hanno determinato (cfr. art. 2 L. 604/1966).

Il licenziamento orale è dunque da considerarsi inefficace, con conseguente applicazione dei rimedi di cui al D.Lgs. 23/2015 (reintegra sul posto di lavoro o, in alternativa, attribuzione di un’indennità, con riconoscimento del diritto al risarcimento). Tuttavia, nel caso di specie, il ricorrente non aveva impugnato il licenziamento, bensì aveva preteso esclusivamente l’indennità sostitutiva del preavviso, contemplata all’art. 2118 del Codice civile: “In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”. In definitiva, il Tribunale di Milano condanna il datore di lavoro a pagare somme a titolo di differenze retributive (retribuzione ordinaria e straordinaria, tredicesima mensilità, TFR e spettanze di fine rapporto), indennità di preavviso e danni non patrimoniali; in secondo luogo, l’imprenditore viene condannato a corrispondere i contributi previdenziali e assistenziali non versati.

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