La sentenza n. 15957 del 7 giugno 2024 della Corte di Cassazione segna un passo significativo nella protezione dei lavoratori da un ambiente lavorativo stressogeno. Essa stabilisce che tali condizioni di lavoro possono essere considerate un fatto ingiusto e suscettibile di risarcimento, anche in assenza di un intento persecutorio, e sottolinea l’importanza di una valutazione globale delle condotte datoriali.
La vicenda giudiziaria in esame prende le mosse dalla Corte di Appello di Bologna, che, confermando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda di un’assistente amministrativa. Quest’ultima aveva richiesto il risarcimento dei danni subiti a causa delle vessazioni da parte del datore di lavoro, sostenendo che queste fossero di natura persecutoria.
La Corte d’Appello, tuttavia, aveva ritenuto le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo troppo generiche, non riscontrando sufficienti prove dell’intento persecutorio nei comportamenti dei colleghi e dei superiori.
Il giudice d’appello, da un lato, aveva riconosciuto che il Ministero non aveva fornito adeguate prove per giustificare il trasferimento della lavoratrice per incompatibilità ambientale, trasferimento che era stato successivamente annullato. Dall’altro lato, aveva anche rilevato che le difficoltà relazionali potevano essere imputabili parzialmente alla stessa dipendente.
Questo giudizio era stato supportato dall’annullamento di una sanzione disciplinare per vizi procedurali, mentre altre due sanzioni disciplinari erano state confermate, evidenziando così un clima lavorativo difficile e un degrado dei rapporti professionali, attribuibile anche alla lavoratrice.
Di fronte a tale sentenza, la lavoratrice ha deciso di ricorrere in Cassazione. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ribaltando le conclusioni dei giudici di merito. La Corte ha sottolineato che l’ambiente lavorativo stressogeno può configurarsi come un fatto ingiusto, anche in assenza di un preciso intento persecutorio.
Questo significa che non è necessario dimostrare che tutte le condotte denunciate siano parte di un disegno persecutorio (come richiesto nel caso di mobbing), ma è sufficiente che le condizioni lavorative siano oggettivamente stressogene e dannose per la lavoratrice.
Inoltre, i giudici della Suprema Corte hanno contestato alla Corte territoriale di non aver esaminato in modo adeguato il contesto complessivo delle condotte datoriali. Infatti, nonostante avesse riconosciuto l’annullamento del trasferimento per incompatibilità ambientale e di due sanzioni disciplinari, la Corte d’Appello non aveva considerato questi elementi nel loro insieme, trascurando di valutare come essi potessero riflettere un clima lavorativo vessatorio.
Questa decisione, in linea con una precedente pronuncia della Cassazione su questo tema, sottolinea l’importanza di una valutazione globale e contestualizzata delle condotte datoriali, promuovendo una maggiore attenzione alla qualità dell’ambiente lavorativo e alle condizioni psicofisiche dei lavoratori.
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