Tempo di spostamento in azienda: va retribuito?

Secondo il D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, l’orario di lavoro è definito come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue attività o funzioni”.

Questa interpretazione si allinea anche con la giurisprudenza europea: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in varie sentenze, ha più volte affermato che i tempi accessori necessari per lo svolgimento della prestazione lavorativa devono essere considerati come orario di lavoro se l’attività in questione è strettamente connessa alla prestazione stessa e imposta dal datore di lavoro.

Nel caso di specie, i dipendenti di un’azienda hanno presentato ricorso per ottenere il riconoscimento come tempo effettivo di lavoro dei cinque minuti spesi, in entrata, per recarsi dal luogo deputato alla timbratura del cartellino al tornello posto all’ingresso dell’azienda e, in uscita, per effettuare il percorso inverso. La Corte d’Appello ha accolto la domanda, riconoscendo ai ricorrenti il diritto a ricevere la retribuzione relativa a questo lasso temporale giornaliero.

La Cassazione, confermando la pronuncia di merito, con l’ordinanza n. 14848 del 28 maggio 2024 ha preliminarmente rilevato che deve essere retribuito il tempo impiegato dal dipendente per svolgere operazioni anteriori o posteriori alla prestazione di lavoro che siano necessarie e obbligatorie. Nello specifico, la sentenza chiarisce che rientra nell’attività lavorativa vera e propria il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro, allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione.

Secondo i Giudici di legittimità, ne consegue che tale lasso temporale debba essere retribuito quando le attività prodromiche alla prestazione integrino operazioni eterodirette, ovvero determinate e organizzate dal datore di lavoro. In questo caso, è stato pacificamente riconosciuto che la datrice di lavoro aveva deciso come strutturare la propria sede e, quindi, il percorso necessario per i dipendenti per accedere al loro posto di lavoro.

La Suprema Corte ha infatti affermato che “è la datrice di lavoro che ha deciso come strutturare la propria sede; dove collocare la postazione di lavoro dei ricorrenti ed il percorso da effettuare; è la datrice di lavoro che ha assegnato ai ricorrenti mansioni svolgibili solo tramite una postazione telematica ed ha quindi provveduto a scegliere il tipo di computer che ha ritenuto più opportuno e ne ha determinato con puntualità la procedura di accensione necessaria all’uso della stessa determinando così anche i tempi necessari;

è la datrice che ha deciso che all’orario esatto di inizio turno i ricorrenti debbano essere già innanzi alla propria postazione già inizializzata e pronta all’uso; (…) che, con il regolamento aziendale del febbraio 2017, ha deciso che tutti coloro che accedono agli spazi aziendali sono tenuti durante la loro permanenza all’osservanza di un comportamento corretto e rispettoso delle regole stabilite”.

Alla luce di tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società e confermato la debenza della somma riconosciuta ai dipendenti.

Questa ordinanza ha importanti implicazioni sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. Per i primi, vi è infatti la necessità di considerare attentamente l’organizzazione logistica interna e i tempi accessori alla prestazione lavorativa, onde evitare contenziosi simili. Per i secondi, viene consolidato il diritto alla retribuzione per il tempo impiegato in attività che, pur non essendo strettamente lavorative, sono funzionali e obbligatorie per l’espletamento delle mansioni.

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