L’inerzia del lavoratore posto illegittimamente in Cassa Integrazione

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La Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, disciplinata dal D.Lgs. n. 148/2015, è un ammortizzatore sociale erogato dall’INPS in presenza di situazioni di riorganizzazione aziendale, crisi aziendale e contratto di solidarietà. Essa fa sì che, pur al cospetto di contesti di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, ai lavoratori sia garantita un’integrazione salariale per un importo pari all’80% della retribuzione globale che sarebbe loro spettata per le ore di lavoro non prestate.

È necessario, tuttavia, che l’impresa determini puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, che devono essere coerenti con le ragioni per le quali l’azienda ha richiesto l’integrazione salariale straordinaria; peraltro, tali criteri, nonché le eventuali modalità di rotazione dei lavoratori da sospendere, dovranno essere condivisi con le organizzazioni sindacali e sottoposti a un esame congiunto.

All’illegittimità della sospensione in Cassa Integrazione di un lavoratore per genericità o indeterminatezza dei criteri di scelta può conseguire il risarcimento dei danni in misura pari alla differenza tra l’ammontare dell’integrazione salariale e la retribuzione. Una conseguenza rispetto alla quale l’imprenditore non può porsi al riparo chiamando in causa il fatto che il lavoratore è rimasto inerte, ossia non ha agito per ottenere il riconoscimento del proprio diritto. Tale principio è stato confermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 90 del 3 gennaio 2023.

Nel caso di specie, la Cassa Integrazione richiesta dalla società ricorrente per esigenze di riorganizzazione era stata dichiarata illegittima poiché non erano stati indicati, né concordati, i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere; per l’effetto, i lavoratori erano stati sospesi sulla base di scelte aziendali del tutto arbitrarie e non riconducibili ad alcuna esigenza organizzativa.

La società aveva fatto ricorso in cassazione adducendo, in particolare, la circostanza per cui il lavoratore in questione, durante i dieci anni trascorsi in Cassa Integrazione, non aveva contestato in alcun modo tale provvedimento; a detta dell’azienda, tale comportamento aveva determinato la perdita del suo diritto.

La Suprema Corte non concorda con tale interpretazione, anzi, cita il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in materia di Cassa Integrazione, affinché si produca perdita del diritto, non è sufficiente una mera inerzia o il silenzio del lavoratore, bensì sono necessari comportamenti univoci e concludenti che rivelino la sua volontà abdicativa.

La Corte di Cassazione liquida altresì l’ipotesi secondo la quale la condotta inerte del lavoratore potrebbe determinare riduzione del risarcimento ai sensi dell’art. 1227 c.c.: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”. La medesima Corte, infatti, con sentenza n. 19235 del 2011, aveva affermato che “la non immediata proposizione dell’azione risarcitoria non può ritenersi concausa del verificarsi del fatto generatore del danno”.

In tal modo, dunque, la Cassazione ribadisce un ulteriore profilo di tutela del lavoratore, rendendo ancor più evidente l’importanza del rispetto, da parte delle aziende, del procedimento di richiesta dell’integrazione salariale straordinaria nelle sue plurime fasi.

Foto di cottonbro studio