Lo stipendio che il lavoratore normalmente percepisce è frutto della trattativa tra sindacati e rappresentanti delle imprese, che porta alla stipulazione di un contratto collettivo; all’interno di quest’ultimo sono elencate le retribuzioni minime previste per ciascun livello di inquadramento professionale.
In Italia manca, invece, una legge che stabilisca un minimo al di sotto del quale i contratti collettivi non possano scendere; da qui il feroce dibattito circa la necessità di prevedere un salario minimo. Nel bel mezzo della discussione politica, la Corte di Cassazione è intervenuta con sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023, affermando che i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi devono adeguarsi a quanto disposto dalla Costituzione.
L’art. 36 della Costituzione afferma che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; inoltre, in Costituzione viene stabilito un minimo al di sotto del quale non si può scendere: la retribuzione deve garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa. Quest’espressione significa che il salario non deve permettere solo di acquistare beni essenziali, quali cibo, vestiario e alloggio, ma deve anche porre il lavoratore nella condizione di partecipare ad attività culturali, educative e sociali.
La Cassazione afferma che l’art. 36 della Costituzione non costituisce una semplice affermazione di principio, ma può essere applicato direttamente dai giudici qualora un lavoratore ritenga che la propria retribuzione è inadeguata. Il giudice potrà quindi modificare i minimi retributivi stabiliti dai contratti collettivi qualora non siano proporzionati alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in ogni caso, qualora non garantiscano un’esistenza libera e dignitosa.
I contratti collettivi mantengono comunque la loro importanza, poiché i sindacati restano i soggetti più idonei a contrattare i salari. Tuttavia, ad oggi la contrattazione collettiva e il fenomeno sindacale presentano delle problematiche; la Cassazione ne cita alcune: la presenza sulla scena di piccoli sindacati che non rappresentano un numero sufficiente di lavoratori; il conseguente aumento del numero dei CCNL (ad oggi se ne contano 946, di cui solo un quinto stipulati dai sindacati più importanti); il ritardo nei rinnovi dei contratti collettivi (il 60% dei CCNL del settore privato sono a oggi scaduti). Il mancato aumento dei salari negli ultimi anni, unito all’attuale situazione di inflazione, ha fatto sì che i salari perdessero il loro potere di acquisto.
Per cui, il giudice assumerà sempre come riferimento la retribuzione minima stabilita dai CCNL, ma verificherà la sua compatibilità con i criteri di proporzionalità e sufficienza dettati dalla Costituzione. Qualora ciò non accada, il giudice potrà modificare la retribuzione del lavoratore servendosi dei parametri contenuti in contratti collettivi diversi rispetto a quello applicato nel caso oggetto di giudizio. Inoltre, il giudice potrà far uso di indicatori economici e statistici; tuttavia, non potrà basarsi su parametri quali l’indice ISTAT di povertà, l’importo del reddito di cittadinanza o della Naspi, in quanto queste sono somme minime utili a garantire al lavoratore la sopravvivenza; la Costituzione, invece, prevede che la retribuzione sia proporzionata al lavoro prestato e idonea a garantire una vita libera e dignitosa e non solo non povera.
Il fatto che i giudici potranno modificare la retribuzione prevista dai contratti collettivi costituisce certamente un grande e necessario passo in avanti nell’applicazione concreta delle Costituzione, dato che la contrattazione collettiva non risulta al passo con i tempi. È possibile, tuttavia, che ciò porti anche a un aumento rilevante delle liti giudiziarie, oltre a una generale incertezza dei costi del lavoro per le imprese.
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