Legittimo il licenziamento per il lavoratore che rifiuta il trasferimento

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Il potere di trasferire il dipendente è una facoltà del datore di lavoro, che può essere esercitata solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive.

Il datore di lavoro può disporre il trasferimento del dipendente per esigenze di natura tecnica e organizzativa (quali ad esempio la riorganizzazione aziendale o l’apertura di una nuova sede) o produttiva.

Questo significa che, se il trasferimento è necessario per il corretto funzionamento dell’azienda o per rispondere a specifiche esigenze produttive, il datore di lavoro può disporlo.

Il trasferimento deve essere ragionevole e proporzionale all’obiettivo che si intende raggiungere. Non deve rappresentare un onere eccessivo per il lavoratore, soprattutto in termini di distanza e di modifiche alle condizioni di vita.

Salvo casi di urgenza dimostrata, il lavoratore deve ricevere un preavviso adeguato prima del trasferimento, in modo da potersi organizzare per le nuove condizioni di lavoro. La legge, tuttavia, non parla di preavviso ma questo può essere indicato dal contratto collettivo.

In caso di disaccordo sul trasferimento, il lavoratore ha il diritto di impugnare la decisione avanti le autorità competenti, dimostrando che il trasferimento non rispetta i criteri di legittimità, necessità e proporzionalità.

Tuttavia, se nel contratto di lavoro è presente una clausola di mobilità, il datore di lavoro ha la facoltà di trasferire il dipendente in un’altra sede, purché rispetti i limiti territoriali previsti dalla clausola stessa e le condizioni contrattuali. In tal caso non è ammessa alcuna opposizione del dipendente.

L’ordinanza n. 3929/2024 della Corte di Cassazione del 13 febbraio 2024 ribadisce un principio importante nelle relazioni di lavoro: il licenziamento per giusta causa è legittimo nel caso in cui un lavoratore rifiuti di accettare un trasferimento presso un’altra sede lavorativa. Questa decisione segue quanto già stabilito nei gradi di giudizio precedenti, sottolineando il venir meno del vincolo fiduciario tra le parti.

La vicenda ha avuto origine quando il lavoratore, dopo un periodo di assenza per malattia e successivamente ritenuto guarito e idoneo a riprendere il lavoro, ha rifiutato di trasferirsi presso la nuova sede di lavoro che gli era stata comunicata in precedenza. In aggiunta, ha modificato il proprio orario di lavoro senza accordi con il datore di lavoro, contravvenendo agli orari concordati all’atto dell’assunzione.

La Corte d’Appello, nel suo esame, ha preso in considerazione non solo il rifiuto del trasferimento e la modifica degli orari di lavoro ma anche precedenti comportamenti del lavoratore, sebbene questi non fossero stati oggetto di sanzioni. La decisione di licenziamento è stata ritenuta proporzionale e giustificata dal venir meno del rapporto fiduciario tra le parti, anche in considerazione del silenzio del lavoratore di fronte alle contestazioni mossegli.

Il lavoratore ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, sostenendo che la sua condotta non aveva arrecato danno al datore di lavoro e contestando la tardività del licenziamento rispetto alle contestazioni. Ha inoltre evidenziato che la sua forte opposizione al trasferimento era stata espressa durante il periodo di malattia.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha respinto le argomentazioni del lavoratore. In particolare, ha sottolineato che, in presenza di una “doppia conforme” – ossia quando le decisioni di primo e secondo grado sono non solo concordanti ma basate sullo stesso iter logico-argomentativo – non è ammissibile contestare l’omesso esame di fatti ritenuti decisivi.

La Cassazione ha quindi confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa, sottolineando l’importanza del mantenimento della fiducia nel rapporto di lavoro e la necessità per il lavoratore di aderire alle legittime richieste organizzative del datore di lavoro.

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