ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE DISABILE SE IL DATORE NON DIMOSTRA L’INESISTENZA DI ALTERNATIVE RAGIONEVOLI

È illegittimo il licenziamento del lavoratore disabile nel caso in cui lo stesso possa essere adibito a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori. L’impossibilità di ricollocare il dipendente presso altra posizione deve essere specificamente provata dal datore di lavoro.

Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 9 marzo 2021 n. 6497.

Nello specifico, una Società proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente disabile per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione. La decisione della Corte territoriale si era basata, in particolare, sull’obbligo del datore di adottare tutti gli “accomodamenti ragionevoli” necessari ad evitare il licenziamento del lavoratore, nei limiti dell’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa. La Corte d’Appello aveva ritenuto non sufficiente la deduzione del datore secondo cui l’organigramma non prevedeva posizioni confacenti al profilo professionale del dipendente in questione. Quanto dedotto non era stato supportato da alcun riferimento all’onere finanziario sproporzionato o comunque eccessivo che l’impresa avrebbe dovuto sostenere per la formazione professionale del lavoratore.

Nello stesso senso si è espressa la Corte di Cassazione, la quale ha ripercorso preliminarmente quanto stabilito dalla normativa nazionale ed internazionale in merito al principio di parità di trattamento in termini di occupazione dei lavoratori disabili ed al concetto di “accomodamento ragionevole”. Invero, il contesto normativo sovranazionale trova nella “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, il riconoscimento del “diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri” (art. 27). La medesima Convenzione sancisce il divieto di discriminare le persone sulla base di condizioni di disabilità, comprendendo nel concetto di “discriminazione” il rifiuto del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli che non comportino un onere sproporzionato per l’impresa e che garantiscano al lavoratore il godimento dei propri diritti, tra cui anche il diritto al lavoro.

Il datore può dunque recedere dal contratto per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore solo nell’ipotesi in cui non risulti possibile adottare misure organizzative ragionevoli per la ricollocazione del dipendente. Secondo la giurisprudenza di legittimità, il giudizio di ragionevolezza esclude che il datore sia tenuto a modificare in maniera peggiorativa le posizioni degli altri lavoratori o a sostenere un onere finanziario eccessivo. Detto criterio non può essere stabilito in astratto, ma deve essere valutato secondo le circostanze del caso concreto, in considerazione dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. posti a presidio del rapporto di lavoro.

Risulta dunque necessaria una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un corretto bilanciamento tra gli stessi: l’interesse del lavoratore disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico; l’interesse del datore a ricevere una prestazione lavorativa adeguata all’organizzazione dell’impresa; l’interesse dei lavoratori a non subire un pregiudizio relativo alla propria posizione lavorativa. 

Nel caso di inesistenza di accomodamenti ragionevoli, il datore potrà recedere dal contratto di lavoro fornendo adeguata prova della legittimità della propria decisione. In tale contesto, sarà tenuto a dimostrare la sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore e l’impossibilità di ricollocare il medesimo in altre posizioni lavorative. Le prove dovranno consistere in fatti e circostanze, di tipo indiziario o presuntivo, in forza delle quali risulti manifesto che il datore si sia attivato nella ricerca di mansioni adeguate a cui adibire il lavoratore, con uno sforzo diligente ed esigibile finalizzato ad una soluzione organizzativa appropriata. Al fine di adempiere a tale onere della prova, il datore di lavoro potrà anche dimostrare che eventuali soluzioni alternative, pur possibili, non siano ragionevoli in quanto “coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero siano sproporzionate o eccessive, a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell’impresa”.

Nel caso in specie, la Suprema Corte ha ritenuto che il datore di lavoro non avesse adeguatamente adempiuto al proprio onere della prova, non avendo fornito elementi utili a dimostrare la propria proattività nella ricerca di una posizione confacente con la condizione del lavoratore. Peraltro, ciò era stato confermato nel giudizio di merito anche dal medico competente, il quale, in qualità di testimone, aveva dichiarato che la Società non gli avesse mai richiesto di esprimere valutazioni in ordine al ricollocamento del dipendente.

La Corte di Cassazione ha rigettato dunque il ricorso della società dichiarando illegittimo il licenziamento del lavoratore.

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