In tema di licenziamento quando può dirsi insussistente il fatto in presenza di una pluralità di contestazioni?

In caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di autonomi e distinti comportamenti, di cui solo alcuni risultino accertati, la “insussistenza del fatto” quando può dirsi configurata?

Sulla questione, si è pronunciata la Corte di Cassazione con ordinanza n. 14667 del 9 maggio 2022.

Nel caso di specie, la dipendente di un’azienda ha impugnato il licenziamento irrogatole per aver attribuito false dichiarazioni alle colleghe, nonché per aver aggredito verbalmente e fisicamente il datore di lavoro in presenza di terzi.

La Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo, ha ritenuto legittimo il licenziamento della dipendente in quanto provati i fatti disciplinarmente addebitati nella lettera di contestazione. Peraltro, la Corte territoriale ha rilevato, con ampia motivazione, che neppure il contesto di elevata conflittualità avrebbe potuto legittimare la lavoratrice a rivolgere insulti immotivati al datore di lavoro. Infatti, in tal modo la dipendente ha reciso irrimediabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto lavorativo.

A seguito della pronuncia di secondo grado, con cui si è stabilita la legittimità della sanzione espulsiva e la condanna della dipendente alla restituzione dell’indennità prevista ex art. 18, comma 5 L. 300/1970 attribuitale dalla sentenza di primo grado, la lavoratrice ha impugnato detta sentenza con ricorso per cassazione, cui ha resistito con controricorso la società datrice.

La Corte di Cassazione, ritenuta la sussistenza di un’ampia motivazione nella pronuncia della Corte di Appello, ha analizzato i motivi proposti nel riscorso congiuntamente, in quanto sovrapponibili.

I giudici di legittimità hanno rilevato che nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, se solo alcuni di essi risultino dimostrati, la “insussistenza del fatto” si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva o, alternativamente, laddove si concretizzi l’ipotesi di fatti sussistenti ma privi del carattere dell’illiceità.

Inoltre, tale valutazione non può in alcun modo prescindere da quella in ordine alla proporzionalità tra sanzione e condotte dimostrate.

Ed invero, qualora sussista una sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta in capo al soggetto una tutela risarcitoria, quando il fatto provato non rientri in nessuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari prevedono una sanzione conservativa, “ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5 L.300/1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1 comma 42, per le quali è prevista una tutela indennitaria cd. forte”.

Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha disposto il rigetto del ricorso, condannando la lavoratrice al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Foto di Pavel Danilyuk