L’ordinamento, a partire dalle norme costituzionali, favorisce e promuove l’effettiva uguaglianza tra i cittadini, predisponendo una serie di tutele a favore dei soggetti che versino in condizioni di particolare svantaggio.
Un fondamentale contributo è dato dal Codice delle pari opportunità, il quale predispone una serie di misure volte ad eliminare le discriminazioni tra uomo e donna, anche con riferimento all’accesso al lavoro: infatti, l’art. 27 D.Lgs. n. 198/2006 vieta le discriminazioni attuate sulla base dello stato matrimoniale, di famiglia, di gravidanza, di maternità o paternità.
La recente ordinanza n. 16785 del 13/06/2023 della Corte di Cassazione affronta il caso che ha coinvolto una lavoratrice in stato di gravidanza assunta a tempo determinato. Si trattava, in particolare, di un medico psichiatra assunto per la sostituzione di un collega assente; pochi giorni dopo l’assunzione, la lavoratrice aveva riferito al datore di lavoro di essere incinta, al che la ASL aveva ritirato la nomina e annullato il contratto di lavoro. La lavoratrice, impugnando il provvedimento, riteneva che fosse in atto una discriminazione sulla base del genere, in quanto un uomo non avrebbe mai potuto trovarsi nelle sue stesse condizioni.
La Cassazione, pronunciandosi sul ricorso, rileva che il contratto di lavoro era stato annullato nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 7 D.Lgs. n. 151/2001, che fa divieto di adibire la lavoratrice a determinate mansioni, tra cui l’assistenza e la cura degli infermi, durante la gravidanza e fino a sette mesi dopo il parto.
La presenza di tale divieto, disposto a tutela sia della gestante che del feto, non lasciava altra scelta alla ASL che ritirare la nomina della lavoratrice, stante il fatto che la gravidanza e l’immediato periodo post-parto avrebbero impegnato l’intera durata del contratto; inoltre, dato che la lavoratrice era stata assunta al fine specifico di sostituire un collega, ella non avrebbe potuto essere neanche adibita a diverse mansioni.
Il comportamento del datore di lavoro, dunque, non poteva qualificarsi come discriminatorio, poiché il rapporto di lavoro, visto il divieto imposto dalla legge, obiettivamente non avrebbe potuto trovare attuazione.
Foto di Amina Filkins