La tardiva giustificazione dell’assenza non legittima il licenziamento

L’assenza del lavoratore deve considerarsi ingiustificata quando la comunicazione delle ragioni giustificatrici non sia intervenuta ovvero sia intervenuta a distanza tale dall’evento da far venir meno la possibilità stessa di ritenere l’assenza, seppur tardivamente, giustificata.

Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione nella sentenza n. 33134 del 10 novembre 2022, con la quale ha definitivamente statuito sull’illegittimità di un licenziamento irrogato per asserita giusta causa.

Nel caso di specie, il dipendente di un’azienda tessile era stato licenziato perché assentatosi dal lavoro per oltre tre giorni consecutivi. In particolare, tali assenze non erano state giustificate dal lavoratore se non a seguito della relativa contestazione disciplinare, con la presentazione di un certificato medico retroattivo.

Il Tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso del lavoratore con il quale era stato impugnato l’atto di recesso e la Corte di appello della stessa città aveva confermato la pronuncia di primo grado.

Ad avviso della Corte territoriale risultava insussistente il fatto addebitato con il licenziamento, ossia il non aver giustificato le assenze, atteso che al momento del recesso la giustificazione era pervenuta al datore di lavoro.

Alla luce delle norme contenute nel CCNL applicabile, infatti, non poteva riscontrarsi un’equiparazione tra assenza ingiustificata ed assenza la cui giustificazione venga comunicata in ritardo:

– nel primo caso, il contratto collettivo consente di sanzionare l’illecito disciplinare con il  licenziamento,  sempre che tali assenze siano superiori a tre giorni lavorativi;

– nel secondo caso, l’irregolare o tardiva giustificazione può essere punita al massimo con la sanzione conservativa della multa o della sospensione.

La Corte di appello aveva poi ritenuto inammissibile l’argomento utilizzato dal datore di lavoro di irregolarità del certificato medico perché retroattivo, in quanto tale specifica circostanza non era stata contestata al lavoratore in sede disciplinare. Inoltre, nel merito, doveva darsi rilievo all’assunzione di responsabilità operata dal medico, il quale, nel redigere il certificato a copertura dell’assenza già avvenuta, aveva evidenziato che si trattava di prosecuzione di malattia, già certificata nel periodo immediatamente precedente a quello in esame.

Avverso tale sentenza, proponeva ricorso in cassazione la società datoriale.

Con i primi due motivi di impugnazione, la ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione delle norme contenute nel CCNL di categoria, nonché la manifesta ed irriducibile contraddittorietà della motivazione redatta dal giudice di merito.

La ricorrente sosteneva che dovesse darsi una diversa lettura alle norme del CCNL, nell’ottica di una maggiore valorizzazione dello spessore della violazione, in quanto l’interpretazione fornita dalla Corte di appello porterebbe al paradosso che, giustificata l’assenza retroattivamente pur dopo un ampio arco temporale, il licenziamento non avrebbe comunque potuto essere irrogato.

La Suprema Corte ha ritenuto di non poter accogliere tali censure.

Il contratto collettivo è chiaro nel distinguere l’ipotesi di violazione formale delle norme che disciplinano le modalità e i termini di comunicazione e giustificazione dell’assenza, dall’ipotesi di insussistenza sostanziale di alcun giustificativo per l’assenza.

Solamente in quest’ultima ipotesi, l’assenza può effettivamente ritenersi ingiustificata e conseguentemente trovare applicazione la norma che consente l’irrogazione del licenziamento disciplinare.

La Cassazione ha però aggiunto che “la giustificazione dell’assenza non può che essere per sua natura prossima all’evento perché l’accertamento del medico non può sopravvenire a distanza di lungo tempo senza che ne siano presenti ragionevoli giustificazioni connesse ad accertamenti necessari”; pertanto, ove tale arco temporale si dilati oltremodo, l’assenza dovrà comunque ritenersi ingiustificata (ipotesi non riscontrata nella specie).

I giudici di legittimità hanno poi ritenuto inammissibile l’ ulteriore motivo di ricorso addotto dalla ricorrente, secondo cui il medico non avrebbe potuto certificare retroattivamente la patologia con una valutazione ex post ed eseguita sulla base delle dichiarazioni a lui rese dal lavoratore.

Tale censura, infatti, più che denunciare l’omesso esame di un fatto decisivo, che può costituire motivo di ricorso per cassazione (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), finisce per prospettare una diversa valutazione dei fatti, tutti esaminati dalla Corte di appello, che rientra nell’esclusiva competenza del giudice di merito.

Per questi motivi la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso e confermato definitivamente la declaratoria di illegittimità del licenziamento.

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