Reintegrazione del lavoratore licenziato se l’azienda non dimostra l’impossibilità di ricollocarlo

L’art. 18, comma 7, Legge n. 300/1970, prima dei recenti interventi della Corte costituzionale, in caso di manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, attribuiva al giudice la mera facoltà di condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un’indennità risarcitoria.

La previsione secondo cui il giudice avrebbe avuto solo la facoltà, e non l’obbligo, di applicare la tutela reintegratoria, venne censurata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 59/2021, in quanto irragionevole e contrastante con il principio di eguaglianza: dato che con riferimento ai licenziamenti disciplinari, in caso di insussistenza del fatto contestato, l’unica tutela applicabile è quella reintegratoria, non vi sarebbe stato motivo di contemplare uno schema sanzionatorio diverso in relazione allo stesso vizio, seppur attinente a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per cui, la Consulta varò una nuova formulazione dell’art. 18, comma 7, L. 300/1970, secondo la quale, in caso di manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice applica solamente la tutela reintegratoria.

L’espressione “manifesta insussistenza” è stata anch’essa recentemente oggetto di una pronuncia di illegittimità della Corte costituzionale, la n. 125/2022: l’aggettivo “manifesta” faceva sì che il requisito di insussistenza del fatto contestato fosse indeterminato, in quanto il giudice non dispone di alcuno strumento attraverso il quale sia possibile valutare il grado di sussistenza di un accadimento. Ad oggi, dunque, il giudice deve applicare la tutela reintegratoria in caso di semplice insussistenza del fatto alla base del licenziamento per motivo oggettivo.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 34049 del 18/11/2022, ha intesto coordinare la problematica del repêchage (ripescaggio) soprattutto con la seconda delle due sentenze sopra citate. L’espressione repêchage si riferisce all’obbligo, per il datore di lavoro, di tentare la ricollocazione del lavoratore in altra posizione o ruolo prima di licenziarlo per giustificato motivo oggettivo. Si tratta di una previsione prettamente di origine giurisprudenziale, secondo la quale il fatto alla base del motivo oggettivo di comprenderebbe sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

La Corte di Cassazione era chiamata a pronunciarsi in merito alla sentenza con la quale la Corte d’Appello di Salerno, in seguito a un licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo, aveva condannato un’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria, poiché il licenziamento in questione sarebbe stato sì illegittimo, ma il fatto posto alla sua base non sarebbe stato manifestamente insussistente; nello specifico, l’azienda aveva definitivamente soppresso la posizione di caposquadra occupata dal ricorrente, tuttavia non aveva fornito prova dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

La Suprema Corte rammenta i mutamenti dovuti ai sopra citati interventi della Corte costituzionale, e richiama, peraltro, l’orientamento consolidato della medesima Cassazione secondo cui è il datore di lavoro, nel momento in cui licenzia un lavoratore, a dover fornire prova dell’impossibilità di ricollocarlo.

La Cassazione rinvia al giudice di appello affinché rivaluti la fattispecie alla luce delle novità apportate dalla Corte costituzionale: dato che il fatto alla base del licenziamento si compone, tra le altre cose, dell’impossibilità di repêchage, la mancata prova rispetto a tale ultimo elemento ha comportato, a detta delle Corte d’Appello, la semplice – non manifesta – insussistenza del fatto; se, però, prima delle sentenze della Corte costituzionale alla semplice insussistenza del fatto conseguiva l’applicazione della tutela indennitaria, ad oggi si applica la tutela reintegratoria.

Per cui, se il datore di lavoro, nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non è in grado di dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione, il giudice ordina la reintegra del lavoratore stesso.

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