Lavoro subordinato: presunto o da provare?

Il rapporto di lavoro subordinato si caratterizza per il vincolo di soggezione che lega lavoratore ed imprenditore, che comporta la limitazione dell’autonomia del primo. Da ciò consegue la necessità di proteggere e tutelare il lavoratore in quanto parte debole del rapporto.

Il lavoro autonomo, al contrario, è caratterizzato dalla possibilità per il soggetto di auto-organizzarsi e, dunque, dall’assenza del vincolo di soggezione rispetto ad un superiore.

Al fine di individuare le fattispecie di lavoro subordinato e di distinguerle rispetto al lavoro autonomo, la giurisprudenza ha individuato due indici fondamentali:

  • l’assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro;
  • l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale.

Vi sono poi ulteriori elementi che, pur non determinanti, suggeriscono l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato:

  • una retribuzione fissa mensile;
  • un orario di lavoro fisso e continuativo;
  • la continuità della prestazione;
  • l’assenza di rischio imprenditoriale.

È il lavoratore a dover provare la sussistenza di tali indici e, conseguentemente, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; vi sono, tuttavia, dei casi in cui tali caratteristiche sono presunte, ed è quindi il datore di lavoro a dover provare la sussistenza di un lavoro autonomo.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15558 del 04/06/2024, si è pronunciata sul tema.

Una commercialista si era rivolta al Tribunale al fine di ottenere il riconoscimento della natura subordinata del proprio rapporto di lavoro presso un CAAF. Tuttavia, il Tribunale – e, in seguito, anche la Corte d’Appello – aveva respinto la richiesta in quanto la commercialista non aveva fornito prove sufficienti. In particolare, la professionista non aveva riportato circostanze utili a dimostrare che ella fosse assoggettata al potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro; infatti, dalle prove non si evinceva che la lavoratrice fosse destinataria di ordini da parte di un superiore, né che fosse sottoposta ad alcun tipo di controllo; inoltre, la commercialista non era tenuta a rispettare un orario di lavoro né a giustificare le proprie assenze. Da ultimo, l’autonomia della commercialista era confermata dal fatto che il CAAF le aveva consegnato le chiavi della sede, i codici di accesso alla cassaforte e ai sistemi informatici dell’ufficio.

La corresponsione di una retribuzione mensile, invece, non indicava necessariamente la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in quanto costituiva la suddivisione in rate di un compenso annuale.

La commercialista ricorreva dunque in Cassazione affermando che l’attività da ella prestata dovesse considerarsi presuntivamente di lavoro subordinato, con conseguente onere a carico del CAAF di provare che, in realtà, l’attività svolta era di lavoro autonomo.

La Cassazione, invece, conferma l’indirizzo già sostenuto in passato, ossia che la presunzione di subordinazione è limitata ai lavori prettamente manuali e/o esecutivi e di minimo contenuto professionale.

Se la prestazione è svolta da un professionista iscritto ad un albo, non è sufficiente, affinché venga considerata di lavoro subordinato, che il professionista sia assoggettato al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore; ciò in quanto la prestazione svolta si caratterizza per un elevato contenuto intellettuale, anche se particolarmente elementare e ripetitiva.

In questi casi, è dunque necessario che sussistano altri elementi: la continuità del rapporto, la regolamentazione dell’orario di lavoro, le modalità di erogazione del compenso.

Sulla base di tali motivazioni, la Corte rigetta il ricorso, confermando la qualifica della fattispecie come di lavoro autonomo.

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