La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha la funzione, tra le altre, di garantire l’uniformità dell’interpretazione del diritto comunitario: a tal fine, i giudici nazionali, qualora incappino in norme comunitarie non limpide nel loro significato, hanno facoltà o obbligo, a seconda che le loro decisioni siano appellabili o meno, di rinviare la questione alla Corte di Giustizia.
Con sentenza del 12 gennaio 2023, la CGUE si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale effettuato dal Tribunale circondariale di Varsavia, riguardante l’interpretazione dell’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Ricorrente nel caso sottoposto all’esame del giudice polacco era un lavoratore autonomo, il quale, nell’arco di sette anni, aveva stipulato una serie di contratti d’opera con la società che gestiva un canale televisivo pubblico. Poco prima dell’inizio dei turni di lavoro previsti dall’ultimo contratto d’opera stipulato, il ricorrente e il suo partner avevano pubblicato su YouTube un video avente ad oggetto la celebrazione delle feste natalizie da parte di coppie omosessuali, con lo scopo di promuovere la tolleranza nei confronti delle coppie composte da persone dello stesso sesso. Pochi giorni dopo la pubblicazione del video, l’impresa informava il ricorrente della cancellazione dei suoi turni settimanali di lavoro. Successivamente, nessun contratto d’opera era stato più stipulato tra le parti. Il lavoratore si era dunque rivolto al giudice al fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e morale, poiché riteneva di aver subito una discriminazione basata sul suo orientamento sessuale.
L’art. 13 della legge polacca sulla parità di trattamento prevede, difatti, che “Chiunque subisca una violazione del principio della parità di trattamento ha diritto a un risarcimento”. Al tempo stesso, tuttavia, detta legge esclude dal proprio campo di applicazione la scelta della controparte contrattuale, “purché tale scelta non si fondi sul sesso, sulla razza, sull’origine etnica o sulla nazionalità”. Il giudice polacco chiedeva allora se la scelta, basata sull’orientamento sessuale dell’altro contraente, di non stipulare un contratto di diritto privato con un lavoratore in proprio, fosse ammessa ai sensi della direttiva 2000/78/CE.
L’art. 3, paragrafo 1, della direttiva sulle pari opportunità determina il campo di applicazione della direttiva stessa, circoscrivendolo:
- alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo;
- all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione.
In primo luogo, la Corte prende in esame l’espressione “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo”, rilevando che l’espressione debba essere intesa in senso ampio, come risulta da un confronto tra le varie versioni linguistiche della norma. Inoltre, dati gli obiettivi della direttiva – combattere le discriminazioni e rendere effettivo, nell’ambito della Comunità Europea, il principio della parità di trattamento – l’espressione “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo” non potrà che abbracciare le condizioni di accesso a tutte le attività professionali, a prescindere dalle loro caratteristiche.
A detta della CGUE, la stipula di un contratto d’opera costituisce certamente una condizione di accesso all’occupazione, poiché trattasi di una circostanza che un lavoratore autonomo, al fine di svolgere la propria professione, deve necessariamente dimostrare. Non solo: secondo la Corte, la decisione di non stipulare un contratto d’opera produce, nei confronti dell’altro potenziale contraente, effetti assimilabili a quelli che il licenziamento produce in relazione a un lavoratore dipendente, in quanto determina cessazione involontaria dell’attività del lavoratore autonomo.
Da ultimo, il fatto che la normativa polacca tutelasse la libertà di scelta del contraente, escludendola dal campo di applicazione della legge sulle pari opportunità (salvo eccezioni), non vale a giustificare la discriminazione paventata dal ricorrente: la CGUE sottolinea che la libertà contrattuale non ha valore assoluto, bensì è da tutelare in rapporto alla sua funzione nella società; le stesse eccezioni previste dal legislatore polacco (“purché tale scelta non si fondi sul sesso, sulla razza, sull’origine etnica o sulla nazionalità”) rendono evidente che egli non intendesse proteggere la libertà contrattuale a costo di operare discriminazioni, tra le quali va inclusa, a detta della Corte, quella fondata sull’orientamento sessuale, anche se non espressamente citata dalla normativa polacca. Ammettere, infatti, che un lavoratore autonomo possa essere discriminato per via del suo orientamento sessuale, equivarrebbe ad impedire che la direttiva 2000/78/CE renda effettivo il principio della parità di trattamento nell’ambito dell’occupazione che, come afferma il considerando 9 della direttiva stessa, è elemento che contribuisce alla piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale, e sociale, nonché alla realizzazione personale.
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