L’uso di simboli religiosi sul luogo di lavoro

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La presenza di simboli religiosi nell’ambiente di lavoro è da tempo oggetto di discussione sia a livello nazionale che internazionale, specie quando si tratta di lavoro pubblico. In tale ambito si rende necessario, infatti, bilanciare due principi contrastanti: la laicità dello Stato e il diritto del lavoratore a esercitare la propria libertà religiosa, non solo privatamente ma anche esternando le proprie convinzioni.

La direttiva 2000/78/CE dell’Unione europea, attuata in Italia dal D.Lgs. 216/2003, si occupa di tutelare i lavoratori rispetto alle discriminazioni basate sulla religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali. In particolare, la direttiva mira a sanzionare sia le discriminazioni dirette che quelle indirette.

La discriminazione diretta è la forma di disparità di trattamento più evidente, in quanto una persona viene trattata esplicitamente in modo meno favorevole rispetto a un collega per uno dei motivi di cui sopra. La discriminazione indiretta, invece, è meno lampante ma non meno impattante: essa è prodotta da una regola o disposizione che all’apparenza è neutra, ossia non colpisce una categoria particolare di lavoratori; però, nei fatti, mette in posizione di svantaggio persone che, ad esempio, professano una determinata religione.

Un caso di discriminazione indiretta è stato recentemente sottoposto al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si è pronunciata con sentenza del 28/11/2023. A rivolgersi alla Corte era stata una lavoratrice di religione musulmana impegnata come responsabile dell’ufficio del comune di Ans, in Belgio, che aveva chiesto di poter portare il velo sul posto di lavoro. Il comune glielo aveva vietato, in forza di un regolamento che impediva a tutti i lavoratori di indossare segni visibili che rivelassero le loro convinzioni religiose, a prescindere dal fatto che lavorassero a contatto con il pubblico o meno.

Dato che il regolamento riguardava tutti i lavoratori dipendenti del comune, esso non poteva costituire una discriminazione diretta; la lavoratrice si domandava, tuttavia, se non si fosse configurata una discriminazione indiretta, in quanto le lavoratrici musulmane sono solite indossare segni religiosi particolarmente vistosi.

La Corte di Giustizia fa presente che una regola non costituisce discriminazione indiretta se mira a realizzare un obiettivo legittimo. Secondo il comune, la regola per cui i lavoratori non possono indossare segni religiosi visibili mira a realizzare il principio di imparzialità e neutralità dello Stato, ossia a creare un ambiente amministrativo totalmente neutro.

Infatti, ogni Stato membro dell’Unione Europea può decidere liberamente quanto spazio concedere alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico, purché le regole imposte siano applicate in modo sistematico nei confronti di tutti i lavoratori. Infatti, qualora si permettesse ad alcuni lavoratori di indossare segni di piccole dimensioni, l’obiettivo della neutralità dello Stato non verrebbe raggiunto, e il divieto di indossare il velo costituirebbe una discriminazione indiretta non giustificata.

Secondo la Corte, dunque, è possibile vietare ai lavoratori del settore pubblico di indossare segni religiosi visibili, purché la regola riguardi indiscriminatamente tutti i lavoratori e purché si punti in tal modo a realizzare una finalità legittima.

Foto di Ono Kosuki da Pexels