Il demansionamento non basta: risarcimento solo se c’è prova concreta del danno

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11586 depositata il 2 maggio 2025, è tornata ad affrontare un tema di cruciale importanza: il risarcimento del danno da demansionamento.

Lo ha fatto con un’affermazione netta: la sola illegittimità dell’assegnazione a mansioni inferiori non legittima automaticamente il riconoscimento del danno, se non accompagnata da una prova concreta e puntuale della lesione subita dal lavoratore.

«Non può ritenersi sussistente un danno risarcibile in re ipsa, quale conseguenza automatica della condotta datoriale accertata come illegittima».

Secondo la Suprema Corte, è quindi necessaria una rigorosa verifica in fatto della sussistenza del danno, che non può essere semplicemente presunto in ragione della violazione dell’art. 2103 c.c. o dell’art. 2087 c.c.

Il danno da demansionamento, sia esso di natura patrimoniale (per perdita di chance, progressioni di carriera, etc.) che non patrimoniale (lesione dell’immagine professionale, mortificazione personale, peggioramento dell’equilibrio psico-fisico), deve emergere da elementi oggettivi e specificamente allegati e dimostrati nel corso del giudizio.

Nel caso affrontato dalla Corte, un lavoratore si era dimesso per giusta causa lamentando un prolungato demansionamento, e aveva chiesto il risarcimento del danno morale e patrimoniale.

Tuttavia, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto la domanda risarcitoria, ritenendo non sufficientemente provata la concreta lesione subita, in quanto «La Corte territoriale […] ha ritenuto insussistente la prova della riconducibilità del dedotto peggioramento delle condizioni di salute all’ambiente lavorativo, in difetto di supporto medico-legale».

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, ritenendo immune da vizi logico-giuridici la motivazione del giudice di merito, che aveva fondato il rigetto sull’assenza di una specifica prova del danno.

In particolare, ha rilevato che: «Il giudice del merito è tenuto ad indicare almeno gli elementi attinenti alla vicenda fattuale che lo inducono a ritenere provata l’esistenza del danno, per scongiurare risarcimenti fondati su una presunta lesione in re ipsa».

Un ulteriore aspetto interessante della pronuncia riguarda le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c. Anche in questo caso, la Corte sottolinea che il giudice non può limitarsi a richiamare genericamente la condotta datoriale, ma deve motivare compiutamente la connessione causale tra il comportamento illegittimo e la scelta del lavoratore di recedere senza preavviso.

La giurisprudenza odierna, insomma, segna una chiara direzione: nessuna automaticità risarcitoria, ma rigore probatorio.

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