Con la recente ordinanza n. 18903/2025, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul delicato tema dei danni patrimoniali derivanti da un trasferimento illegittimo, affrontando una questione tutt’altro che secondaria: il diritto al rimborso delle spese di viaggio sostenute dal lavoratore per raggiungere la sede presso cui è stato temporaneamente adibito.
La vicenda trae origine dalla domanda di un dipendente del servizio sanitario (un ostetrico coordinatore), il quale, a seguito della dichiarazione giudiziale di illegittimità del suo trasferimento, ha chiesto di vedersi risarcite le spese chilometriche sostenute per anni utilizzando la propria auto, nonché le retribuzioni corrispondenti al tempo di viaggio impiegato quotidianamente.
Il ricorso è stato respinto in primo e secondo grado, ma parzialmente accolto dalla Suprema Corte, che ha cassato con rinvio la decisione di merito, offrendo importanti chiarimenti sui limiti del diritto al risarcimento.
La Cassazione ha riconosciuto in via astratta la risarcibilità del danno patrimoniale derivante da un trasferimento dichiarato illegittimo, inclusi i costi sostenuti per raggiungere la sede di lavoro con mezzi propri.
Tuttavia, ha ribadito che spetta al lavoratore dimostrare l’indispensabilità dell’uso dell’auto privata, ossia l’impossibilità di utilizzare mezzi pubblici senza eccessivo disagio o aggravio. La Corte territoriale aveva rigettato la domanda ritenendo che l’attore non avesse provato l’impossibilità di utilizzare trasporti alternativi, ad esempio partendo da comuni limitrofi meglio collegati.
La Cassazione ha però ritenuto che questa interpretazione ribaltasse l’onere probatorio, che spetta invece al datore di lavoro, come chiarito dalla stessa ordinanza: “La prova che il creditore-danneggiato avrebbe potuto evitare i danni…deve essere fornita dal debitore-danneggiante che pretende di non risarcire”.
Ne consegue che, in caso di trasferimento illegittimo, il risarcimento per l’uso del mezzo proprio è ammissibile, salvo che il datore di lavoro dimostri che vi fossero mezzi pubblici adeguati e utilizzabili senza sacrifici eccessivi da parte del lavoratore.
Diversa è la questione relativa al tempo impiegato nei tragitti casa-lavoro, per il quale il lavoratore aveva richiesto un risarcimento equivalente alla retribuzione per circa due ore e mezza al giorno.
Su questo punto, la Cassazione ha confermato il rigetto della domanda, evidenziando che ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 66/2003, il tempo di percorrenza casa-lavoro non costituisce orario di lavoro e, pertanto, non è retribuibile.
Inoltre, è stato evidenziato che non sussistono elementi per qualificare tale tempo come danno risarcibile, in mancanza della prova di una lesione specifica alla sfera giuridica del lavoratore (salute, tempo libero, vita familiare ecc.).
Alla luce di ciò, i giudici della Suprema Corte hanno confermato che la giurisprudenza europea richiamata dal ricorrente (riguardante i “lavoratori itineranti”) non risulta applicabile a tale fattispecie.
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