Il demansionamento, ossia l’adibizione del lavoratore a mansioni appartenenti a livello professionale inferiore rispetto a quello nel quale è inquadrato, è attuabile solo in casi limite. Ai sensi dell’art. 2103 del Codice civile, il demansionamento può avvenire, infatti, qualora venga attuata una riorganizzazione aziendale che incida direttamente sulla posizione occupata dal lavoratore, che verrà dunque assegnato a mansioni riconducibili al livello inquadramentale inferiore, seppur appartenenti alla stessa categoria nella quale il lavoratore era stato occupato in precedenza. Al di fuori di questo caso, e di eventuali e ulteriori possibilità contemplate dal CCNL, il demansionamento sarà consentito solo se scaturisce da un accordo stipulato in sede protetta ai sensi dell’art. 2103, comma 6, del Codice civile, sempre che il mutamento di mansioni risponda all’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
L’adibizione a mansioni non adeguate alla propria professionalità può infatti causare ingenti danni allo sviluppo della carriera del lavoratore. Senonché, affinché il lavoratore possa ottenere il risarcimento, l’entità di tali danni dovrà essere provata.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2122 del 24/01/2023, ribadisce questo principio con riferimento al caso di una lavoratrice che, a seguito di demansionamento accompagnato da atti di mobbing, aveva preteso il risarcimento del danno professionale, del danno non patrimoniale e del danno alla salute. La Corte, in particolare, afferma che, in presenza di demansionamento o dequalificazione, il danno non si presume; tuttavia, la prova potrà essere fornita anche attraverso elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura ed il tipo di professionalità in questione, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la dequalificazione.
Nel caso di specie, la lavoratrice, a seguito di una divergenza con il datore di lavoro, era stata lasciata in una pressoché totale inattività, il che, a detta della ricorrente, aveva diminuito la sua capacità professionale, nonché le sue possibilità di ottenere promozioni. La Corte d’Appello aveva ritenuto che la lavoratrice non avesse fornito prova adeguata della sussistenza del danno del quale chiedeva il risarcimento. La Corte di Cassazione, d’altro canto, prende atto del fatto che la carriera della lavoratrice era stata caratterizzata da una costante ascesa a ruoli di prim’ordine, per poi rapidamente peggiorare, in quanto ella venne spostata in altra struttura e le vennero affidati sempre meno incarichi fino a lasciarla del tutto inoperosa. Dati fattuali questi – sostiene la Cassazione – che evidenziano un pregiudizio alla professionalità della lavoratrice.
Foto di Andrea Piacquadio