La Corte di Cassazione penale con sentenza n. 3255/2021 ha ritenuto legittima l’istallazione di videocamere di sorveglianza, in assenza di accordi sindacali o autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, nel caso in cui sia diretta a tutelare il patrimonio aziendale e non sia volta al controllo dell’ordinario svolgimento della prestazione lavorativa.
Nel caso di specie, il titolare di un’azienda esercente attività di vendita al dettaglio, a seguito del verificarsi della mancanza di merce dal magazzino, aveva provveduto ad installare videocamere di sorveglianza. Tale operazione era stata eseguita senza il preventivo accordo delle organizzazioni sindacali o dell’Ispettorato del Lavoro.
In conseguenza di ciò, il Tribunale di Viterbo lo aveva riconosciuto colpevole del reato di cui alla L. 300/1970 art. 4, commi 1 e 2 e art. 38, irrogandogli la pena dell’ammenda di € 200,00 previa concessione delle attenuanti generiche.
Avverso la sentenza del Tribunale, il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione, rappresentando che gli impianti erano stati adottati a seguito del verificarsi di ammanchi ed erano comunque stati rivolti solo verso la cassa e le scaffalature.
La Suprema Corte, in via preliminare, ha precisato che la descrizione della fattispecie incriminatrice si rinviene nell’art. 4 della L. 300/1970, più volte modificato nel tempo.
Il testo attualmente vigente dell’art. 4 L. 300/1970 per effetto delle riforme recate prima dal D. Lgs. 14 settembre 2016, n. 151, art. 23, comma 1, e poi dal D. Lgs. 24 settembre 2016, n. 185, art. 5, comma 2, dispone: “(…) Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali (…). In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro (…)”.
La Suprema Corte, aderendo ad una precedente decisione, ha affermato che perché si configuri il reato di cui all’art. 4 “è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)”, confermando l’utilizzabilità nel processo penale dei risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.
Sul punto, la Suprema Corte ha altresì richiamato la consolidata giurisprudenza civile di legittimità che, anche nei suoi arresti più recenti, ha ritenuto che esulino dall’ambito di applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 4 e non richiedano l’osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa.
Dunque, ai fini dell’interpretazione dell’art. 4 L. 300/1970, è stata ribadita la necessità di operare un “equo e ragionevole bilanciamento” tra il diritto alla dignità, alla libertà del lavoratore nell’espletamento della prestazione lavorativa e il diritto di ogni cittadino al rispetto della propria persona, previsti dagli artt. 1, 3, 35, 38 Cost. e il libero esercizio dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro ex art. 41 Cost.
Opzione ermeneutica avallata, secondo la Suprema Corte, dalla giurisprudenza della Corte EDU, ove i giudici di Strasburgo, pur affermando la possibilità, per gli ordinamenti giuridici nazionali, di prevedere limiti al diritto al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza nell’ambito lavorativo, hanno anche sottolineato l’esigenza di contenere tali limiti nel rispetto del principio di proporzionalità, la necessità di assicurare garanzie procedurali contro possibili arbitri, e l’occorrenza di “misure protettive” di diritto penale.
In applicazione di questi principi, la Corte di Cassazione, escludendo la configurabilità del reato di cui all’art. 4 L. 300/1970 nella fattispecie in esame, ha annullato la sentenza impugnata disponendo il rinvio per un nuovo giudizio.
A margine di quanto sopra, è utile segnalare – sul fronte civilistico – la sentenza della Suprema Corte n. 14454/2017, che ha confermato l’utilizzabilità degli elementi forniti dall’agenzia investigativa al fine di dimostrare la realizzazione del reato di furto in azienda, subordinandone l’attendibilità al fatto che siano “raccolti in un apprezzabile lasso di tempo”, integrino “molteplici episodi” e trovino conferma “nelle verifiche contabili operate dalla società e ritualmente documentate”.
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