Con l’ordinanza n. 17036 del 20 giugno 2024, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio di diritto rilevante in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, chiarendo che l’obbligo del datore di lavoro di tentare il repêchage, ai sensi dell’art. 2103, comma 2, del Codice Civile, è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore al momento del licenziamento. Tale obbligo non si estende a posizioni che richiedono una formazione specifica che il lavoratore non possiede.
Il caso ha coinvolto due lavoratori che hanno impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sostenendo, tra le altre cose, che il datore di lavoro aveva violato l’obbligo di repêchage, poiché esistevano posizioni libere in azienda al momento del licenziamento.
La Corte d’Appello aveva rigettato la loro domanda, ritenendo che l’obbligo di repêchage fosse limitato alle capacità, al bagaglio professionale e alla formazione del lavoratore al momento del licenziamento.
Confermandone la pronuncia, la Corte di Cassazione ha preliminarmente osservato che l’obbligo di repêchage deve essere limitato alle posizioni confacenti con le attitudini e la formazione possedute dal lavoratore al momento del licenziamento.
I giudici hanno ribadito che il datore di lavoro non è tenuto a fornire ulteriore o diversa formazione per mantenere il lavoratore in azienda, sottolineando che tale approccio è in linea con il bilanciamento necessario tra il diritto del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro e il diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente.
Tale principio, si legge nell’ordinanza, “[…] ha orientato il legislatore delegante la novellazione dell’art. 2103 c.c. (ad opera dell’art. 3, primo comma D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”), che all’art. 1, settimo comma, punto e) della legge 10 dicembre 2014, n. 183 ha in particolare, per la “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi”, fissato il principio direttivo del contemperamento dell’”interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento.
Ed esso, sia pure non esplicitamente recepito dalla norma delegata, ne costituisce ratio interpretativa, da declinare nelle diverse ipotesi di mutamento delle mansioni nella prestazione lavorativa”.
Questa ordinanza ha importanti implicazioni sia per i datori di lavoro che per i lavoratori.
Infatti, da un lato è confermato che i datori di lavoro non sono obbligati a riqualificare i lavoratori per posizioni che richiedono competenze specifiche che essi non possiedono al momento del licenziamento.
Dall’altro lato, i lavoratori devono essere consapevoli che il loro diritto al repêchage è limitato alle posizioni che possono essere ricoperte con il loro attuale bagaglio professionale e senza necessità di formazione aggiuntiva.
La Suprema Corte di Cassazione, alla luce delle suesposte considerazioni, ha rigettato il ricorso dei lavoratori e ha confermato la legittimità del licenziamento.
Foto di Antoni Shkraba da Pexels