Risarcimento del danno al lavoratore: Consiglio di Stato su mobbing e demansionamento

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La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione II, del 12 marzo 2024, n. 2354, pone l’attenzione sulla definizione e distinzione tra mobbing e demansionamento nel contesto lavorativo. In particolare, la sentenza affronta la questione delle condotte lesive del datore di lavoro o del superiore gerarchico che possono danneggiare la salute mentale e la personalità del dipendente.

Il Consiglio di Stato chiarisce che il mobbing consiste in una serie di azioni sistematiche e protratte nel tempo, volte a prevaricare o perseguitare psicologicamente il dipendente sul luogo di lavoro. Questo comportamento può causare umiliazione e isolamento, mettendo a rischio l’equilibrio mentale e la salute psicofisica del lavoratore.

La sentenza sottolinea che per riconoscere il comportamento lesivo del datore di lavoro nel contesto del mobbing, è importante considerare diversi elementi, tra cui la molteplicità delle azioni, il danno alla salute o alla personalità del lavoratore, il legame causale tra il comportamento del datore di lavoro e il pregiudizio subito dal lavoratore, e la prova dell’intenzione persecutoria dietro tali azioni.

Inoltre, la sentenza delinea l’importante differenza tra mobbing e demansionamento. Nel demansionamento, il datore di lavoro assegna al dipendente mansioni inferiori rispetto a quelle della sua qualifica, senza la necessità di dimostrare un intento persecutorio. Tuttavia, il demansionamento può essere parte di un disegno persecutorio più ampio che integra il mobbing. Quest’ultimo, ai sensi della sentenza di Cassazione civile, Sezione lavoro, n. 9899 del 3 febbraio 2016, può spingersi fino al limite estremo dello svuotamento totale di contenuto dell’attività lavorativa, mediante l’emarginazione e l’isolamento del lavoratore, che costituisce senz’altro la forma più grave di demansionamento.

Qualora ciò avvenga, la nozione di demansionamento applicabile è quella anteriore alla riforma del 2015, che si sostanzia nel depauperamento qualitativo della prestazione lavorativa, ove essa sia mossa da intento vessatorio, ancorché giustificata e giustificabile sul piano organizzativo e comunque rispettosa formalmente del livello e del ruolo precedentemente rivestiti dal dipendente.

Il danno alla salute fisiopsichica, ovvero il danno morale che consegue al demansionamento parte integrante del mobbing si identifica con quello derivante dal complessivo approccio prevaricatorio: in tale ottica, diviene inutile e difficoltoso cercare di distinguere l’efficacia causale dell’uno rispetto agli altri comportamenti.

La sentenza, inoltre, fa un’analisi anche sulle implicazioni legali del demansionamento dopo il “Jobs Act” (D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81), sottolineando che la nozione di demansionamento è diventata nel tempo più formale-giuridica, non essendo richiesta una vera equivalenza tra le mansioni attuali e quelle precedenti. La nozione attuale mira a tutelare l’inquadramento formale del demansionamento, ma con una maggiore attenzione anche alle esigenze del datore di lavoro.

In ultima analisi, il Consiglio di Stato affronta il tema del danno professionale e morale causato dal demansionamento, sottolineando che il lavoratore demansionato ha diritto a richiedere il risarcimento del danno subito, patrimoniale, esistenziale o biologico, previa dimostrazione della sua esistenza.

Tuttavia, nel caso in cui il demansionamento costituisca uno dei modi, se non il modo per eccellenza di manifestazione del mobbing, il Consiglio di Stato ritiene che possa continuare a trovare rilievo la relativa nozione antecedente la Riforma del 2015.

Foto di Susanne Jutzeler da Pexels