Licenziamento nullo se il patto di prova è invalido

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24201 del 29 agosto 2025, torna a pronunciarsi sulle conseguenze del licenziamento intimato al termine di un patto di prova dichiarato nullo.

Il caso riguardava una lavoratrice di OVS S.p.A., assunta nel 2017 con un patto di prova di sei mesi, successivamente licenziata nel 2018 per mancato superamento della prova. Dopo alterne vicende giudiziarie, la Corte d’Appello di Venezia aveva dichiarato la nullità del patto di prova e, di conseguenza, l’illegittimità del licenziamento, disponendo la reintegrazione della dipendente e la corresponsione dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3, co. 2, del D.Lgs. 23/2015.

OVS ricorreva in Cassazione, sostenendo che, in caso di nullità del patto, non potesse applicarsi la tutela reintegratoria, ma solo quella indennitaria (art. 3, co. 1, D.Lgs. 23/2015).

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ribadendo un orientamento ormai consolidato e rafforzato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024. Secondo i giudici di legittimità, quando il patto di prova è nullo, la cessazione del rapporto per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, e deve quindi essere trattata come un ordinario licenziamento privo di giustificazione.

In particolare, la Cassazione osserva che: “Il mancato superamento di una prova che non esiste è, in sostanza, una chiara ipotesi di insussistenza del fatto materiale, perché manca l’esistenza del fatto posto a fondamento della ragione giustificatrice”.

Da ciò deriva l’applicabilità della tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 3, co. 2, D.Lgs. 23/2015, come reinterpretato dalla Corte Costituzionale.

I giudici della Suprema Corte ripercorrono i principali approdi giurisprudenziali sul tema, in quanto già in passato si era chiarito che la nullità del patto di prova comporta la conversione automatica del rapporto in definitivo sin dall’inizio, ex art. 1419 c.c.. In tali ipotesi, il recesso datoriale non può essere assimilato ad un recesso ad nutum, ma deve essere sottoposto al sindacato di giustificatezza previsto dalla L. 604/1966.

Con la riforma Fornero (2012) e, successivamente, con il D.Lgs. 23/2015, la giurisprudenza aveva oscillato tra l’applicazione della tutela indennitaria e quella reintegratoria attenuata;

Oggi, alla luce dell’intervento della Corte Costituzionale, si conferma che il licenziamento intimato per un patto di prova nullo rientra tra i casi di insussistenza del fatto e comporta dunque la reintegrazione.

Altro punto importante riguarda la determinazione del danno. La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello, che aveva liquidato alla lavoratrice l’indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità (pari a 90.000 euro), detraendo dall’importo quanto percepito aliunde (39.182 euro).

Viene così ribadito che la misura massima rappresenta un tetto invalicabile, entro il quale va calcolata l’indennità tenendo conto dell’aliunde perceptum.

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