Le Corti da tempo riconoscono la possibilità, per i familiari di una persona vittima di illecito, di ottenere il risarcimento dei danni morali “riflessi”, vale a dire dei pregiudizi, derivanti dall’illecito, che colpiscano il contesto familiare: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già nel 2002, disponevano che ai parenti prossimi di una vittima di lesioni spettasse il risarcimento del danno morale subito in ragione della relazione affettiva intercorrente con la vittima (Cass. sez. un., 22 maggio 2002, n. 9556).
Il mobbing lavorativo non fa eccezione rispetto a questa possibilità, dato che gli atteggiamenti persecutori posti in essere dal datore di lavoro o dai colleghi possono danneggiare in modo rilevante la carriera e la salute mentale del lavoratore, con riflessi anche sulla sua famiglia. Tuttavia, come per ogni illecito civile extracontrattuale, i danneggiati, affinché possano ottenere il risarcimento, sono tenuti a provare l’esistenza del danno, dell’evento dannoso e il fatto che il primo sia conseguenza del secondo.
La Corte di Cassazione ha recentemente affrontato una fattispecie di questo tipo, confermando la sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva respinto le richieste di risarcimento pervenute dai familiari di una vittima di mobbing. Si trattava, in particolare, di una segretaria che aveva subito condotte vessatorie da parte dei superiori gerarchici e dei colleghi; il marito e il figlio della lavoratrice avevano chiesto il risarcimento dei danni riflessi, poiché, a detta loro, l’azione di mobbing aveva provocato nella donna un grave stato depressivo, tanto che ella si era successivamente separata dal coniuge determinando uno stravolgimento della vita familiare.
La Cassazione, con ordinanza n. 12460 del 09/05/2023, ribadisce la configurabilità, in astratto, del risarcimento dei danni “riflessi” provocati ai familiari della vittima di illecito, anche qualora si tratti di mobbing; tuttavia, al contempo, la Corte prende atto, nella specie, dell’assenza di prove sufficienti da parte dei familiari della lavoratrice: essi, infatti, avevano mancato di dimostrare, principalmente, che i danni al contesto familiare fossero stati causati esclusivamente dall’azione di mobbing. Nei fatti, la mancata convivenza tra moglie e marito, a seguito del mobbing, era durata solo sei mesi, in quanto essi si erano successivamente ricongiunti, peraltro con permanenza di interessi sentimentali; la separazione dei coniugi era intervenuta solo a cinque anni di distanza dagli eventi di mobbing subiti dalla moglie.
Per cui, i ricorrenti non avevano dimostrato che, in conseguenza dello stato depressivo determinato dal mobbing, la moglie avesse fatto mancare al marito e al figlio il proprio sostegno affettivo, morale e materiale.
In definitiva, è pacifica la pervasività dei danni recati dal mobbing lavorativo, sia con riferimento alle possibili turbe psicofisiche nel lavoratore che in relazione alla destabilizzazione dell’intero contesto famigliare; tuttavia, la Corte ribadisce, altresì, il rigoroso regime probatorio che deve caratterizzare qualsiasi richiesta di risarcimento del danno extracontrattuale.
Foto di RDNE Stock project